Antonio Ingroia e il suo diritto a dire la sua
La lotta alla mafia non è la guerra dove i buoni alla fine trionfano sempre. Per questo la testimonianza di uomini liberi come Antonio Ingroia è fondamentale.
Salvatore Marino |
Ci sono diversi modi per delegittimare un magistrato. La mafia e la cultura mafiosa lo fanno ex-post. Nel senso che lo combattono fin quando è in vita e in tutti i modi possibili: cercano di corromperlo, lo intimidiscono, contribuiscono a creare un clima di insofferenza e di fastidio intorno a chi gli è vicino.
Ricordo la lettera degli abitanti di Via Notarbartolo a Palermo che si lamentavano vivacemente della militarizzazione della zona prospiciente il palazzo dove viveva Giovanni Falcone. Intervistati dissero che era meglio che i magistrati vivessero in periferia, isolati o rintanati nel bunker del palazzo di giustizia.
Ricordo anche le lamentele di molti per il traffico bloccato al passaggio delle scorte, per i divieti di parcheggio nei punti “sensibili” della città.. Ma era, come dire, una contrapposizione scontata, prevedibile, tipica dei mafiosi.
Più sofisticata era la delegittimazione successiva ex-post, quando il magistrato è stato eliminato. È (è sempre stata) quella più subdola. Si insinua il sospetto che il magistrato non sia stato ucciso per questioni relative ad indagini di mafia, per la sua intransigenza, ma per ben altro.
Ad esempio per “questioni di fimmini” che è sempre una buona scusa in Sicilia per giustificare un omicidio. Ricordo che il parlottio (ex-post) nei bar, nelle piazze, negli uffici della mia città dopo l’uccisione di Ciaccio Montalto, o l’attentato a Carlo Palermo, o l’assassinio di Mauro Rostagno aveva sempre un denominatore comune: “Ma lo volete sapere perché l’hanno ammazzato? Perché era un gran fimminaro! Avrà disturbato qualcuno e l’hanno ammazzato” (e qui ci vorrebbe, lo dico per i lettori, una bella e teatrale declamazione con marcato accento siciliano. Ma lascio all’immaginazione). Un classico, come nella migliore tradizione dei film ambientati in Sicilia negli anni 60. E diventava una sorta di opinione comune, un mantra che si diffondeva in città.
Quel modo di sentire le vicende di mafia che permise negli anni ottanta ad un tristemente famoso sindaco di Trapani di sostenere, ad un solenne funerale di Stato, che “la Mafia non esiste!” (il personaggio si chiamava Erasmo Garuccio. Forattini lo disegnò con le braghe abbassate e una lupara infilata nelle terga mentre declamava dal palco la sua verità).
Gli omicidi di Falcone e Borsellino, l’ondata di arresti che ne è seguita, non hanno segnato una linea di demarcazione. Da un lato la mafia si è opportunamente inabissata, ha deposto armi e tritolo ed ha ripreso a fare affari. Ma l’atteggiamento dei media, dell’opinione pubblica più influente, della politica in generale, non è cambiato: infatti gli attacchi a Falcone, prima del suo assassinio, provenivano dall’interno della magistratura e dalla sua corrente di appartenenza.
Provenivano anche da settori della stampa progressista: fu definito “in preda alla vanità, a descriversi, a celebrarsi, ad assumere atteggiamenti che si colgono nelle interviste dei guitti televisivi...”. Neanche l’Unità fu tenera nei suoi confronti. Non furono teneri magistratura e stampa quando era in vita, quando era un bersaglio facile da attaccare. Quando non costava niente sostenere che il fallito attentato all’Addaura era stato organizzato per farsi pubblicità.
Con Antonio Ingroia si rivedono purtroppo parecchie analogie. Si ha la sensazione dell’isolamento e dell’accerchiamento. Non da parte della mafia. Ma della politica e di certa opinione pubblica. Non si riesce a intravedere nelle dichiarazioni rese ai giornali dagli esponenti politici una benché minima attestazione di stima, un sentimento di solidarietà, un incoraggiamento a continuare. Se non con rare eccezioni. Anche nel suo caso la Magistratura e la sua stessa corrente di appartenenza ne censurano l’operato.
È proprio per questo motivo che Antonio Ingroia deve continuare. A muoversi, a partecipare, ad accettare gli inviti. A spiegare ai giovani cos'è la mafia e come sono intrecciati i rapporti tra la stessa e la politica.
Con Antonio Ingroia si rivedono purtroppo parecchie analogie. Si ha la sensazione dell’isolamento e dell’accerchiamento. Non da parte della mafia. Ma della politica e di certa opinione pubblica. Non si riesce a intravedere nelle dichiarazioni rese ai giornali dagli esponenti politici una benché minima attestazione di stima, un sentimento di solidarietà, un incoraggiamento a continuare. Se non con rare eccezioni. Anche nel suo caso la Magistratura e la sua stessa corrente di appartenenza ne censurano l’operato.
È proprio per questo motivo che Antonio Ingroia deve continuare. A muoversi, a partecipare, ad accettare gli inviti. A spiegare ai giovani cos'è la mafia e come sono intrecciati i rapporti tra la stessa e la politica.
Come ha fatto in una affollatissima assemblea all’Università di Roma 3. Come ha fatto nelle assemblee di partito (di tutti i partiti che lo invitano). Come ha fatto pochi giorni fa alla presentazione del libro del mio caro amico Luciano Mirone. Con l’approccio straordinario che è dato dalla “sua” testimonianza la quale è fatta di approfondimenti e di memoria. Per questo deve continuare a partecipare. Ad usare quel termine partigiano della Costituzione che suona straordinariamente bene in un momento nel quale la Costituzione stessa è messa in discussione.
La lotta alla mafia non è la guerra tra buoni e cattivi dove i buoni alla fine trionfano sempre. Purtroppo non è così. In Sicilia (ma a poco a poco anche nel resto d’Italia) oggi più che mai è lotta al compromesso morale, alle connivenze e alle convenienze, all'amalgama tra potere criminale e politico, alla cultura dell’indifferenza. Per questi motivi c’è bisogno di testimonianza. E la testimonianza di uomini liberi come Antonio Ingroia è fondamentale.
P.S. A Palermo, qualche giorno fa, Antonio Ingroia ha fatto un bellissimo intervento alla presentazione del libro A Palermo per morire. I cento giorni che condannarono il Generale Dalla Chiesa di Luciano Mirone. Mi accompagnava all’evento una cara amica, dirigente in pensione di una delle scuole più a rischio della città. Ha voluto conoscere Ingroia il quale, dopo aver congedato per 10 minuti la scorta e nonostante l’ora tarda, si è intrattenuto con lei. Paola mi ha riferito dopo che avevano amabilmente discusso di Cicerone e politica.
La lotta alla mafia non è la guerra tra buoni e cattivi dove i buoni alla fine trionfano sempre. Purtroppo non è così. In Sicilia (ma a poco a poco anche nel resto d’Italia) oggi più che mai è lotta al compromesso morale, alle connivenze e alle convenienze, all'amalgama tra potere criminale e politico, alla cultura dell’indifferenza. Per questi motivi c’è bisogno di testimonianza. E la testimonianza di uomini liberi come Antonio Ingroia è fondamentale.
P.S. A Palermo, qualche giorno fa, Antonio Ingroia ha fatto un bellissimo intervento alla presentazione del libro A Palermo per morire. I cento giorni che condannarono il Generale Dalla Chiesa di Luciano Mirone. Mi accompagnava all’evento una cara amica, dirigente in pensione di una delle scuole più a rischio della città. Ha voluto conoscere Ingroia il quale, dopo aver congedato per 10 minuti la scorta e nonostante l’ora tarda, si è intrattenuto con lei. Paola mi ha riferito dopo che avevano amabilmente discusso di Cicerone e politica.
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