Monti, Europa, tecnica, democrazia
La riconferma di Monti può rassicurare qualche circuito internazionale, ma segnerebbe la definitiva resa della politica a governare il paese.
Giuseppe Santino |
Il presidente Monti e gli altri alleati europei stanno iniziando a pensare ad una governance politica dell’Europa per arginare il potere della finanza nella gestione economica dei Paesi dell’eurozona.
Consapevoli, più di chiunque altro, che la crisi mondiale del capitalismo è dovuta a scelte finanziarie disastrose che, accompagnate da un innalzamento del debito pubblico, hanno generato condizioni di recessione. In una situazione complessiva di assenza del potere politico o di incapacità di intervento, le agenzie di rating distribuiscono pagelle e voti, in perfetta sintonia con il tormentone estivo “tu mi porti su e poi mi lasci cadere”. Dalle stelle alle stalle e viceversa.
E in questo altalenante gioco si consumano o si incrementano ingenti patrimoni finanziari, accentuando i fattori recessivi e lasciando gli Stati più deboli nel loro cattivo brodo. In presenza di una crisi profonda delle capacità produttive e dell’economia in generale di un Paese, si acuisce la lotta di classe. La si può non chiamare così per non sembrare con lo sguardo rivolto al passato, ma di questo si tratta. Se ci sono altri modi per definire i licenziamenti e le lotte degli operai, io non li conosco.
La crisi ha spazzato via anche l’idea di un “nuovo liberalismo” che avrebbero dovuto dare un volto umano al capitale, creando condizioni di solidarietà e di benessere generale, ridisegnando il ruolo dello Stato nei diritti civili, in un sistema di decentramento e di sburocratizzazione. Un processo che per Dahrendorf avrebbe dovuto sostituire lo stato sociale, frutto di una visione statalistica e socialistica della società, con la comunità civile. Un’altra utopia.
Già negli anni '50 del secolo scorso si discuteva della necessità di relazioni sociali all’interno delle fabbriche e di compartecipazione degli operai per abbattere l’alienazione dal lavoro e migliorare la produzione. E non erano comunisti ma cattolici i promotori di questa idea di sociale e di responsabilizzazione del capitale. Possiamo renderci conto di quanta strada non è stata fatta.
L’acuirsi della crisi porta con forza in primo piano l’obbligo di definire le linee politiche dell’Europa. Non più un’Europa della sola finanza ma l’Europa dei cittadini con regole comuni e con una gestione condivisa. Non si tratta di cedere sovranità ma di concorrere alla realizzazione di una politica sociale che possa creare condizioni di solidarietà e di scelte economiche comuni che vadano anche nella direzione dello sviluppo dei singoli Stati.
L’Unione Europea è ancora in buona parte una prospettiva obbligata ed è un impegno cogente per i Parlamenti nazionali. Non sono ancora vinte le resistenze degli Stati più forti, come la Germania, sempre più restii a versare alla cassa comune più del ricevuto e ad interventi a favore di un Sud “spendaccione” e “corrotto” mentre la Banca tedesca, obtorto collo, ha dovuto accettare la posizione di Draghi e della BCE di aiuti ai Paesi in difficoltà.
La svolta forse sarà rappresentata dal vertice straordinario europeo previsto per la primavera del 2013. Sul tappeto le riforme che dovrebbero portare ad un assetto economico e politico dell’eurozona tale da evitare il ripetersi di crisi volute e gestite da un potere forte.
Da qui la preoccupazione per il futuro politico degli Stati in difficoltà; c’era apprensione per la Grecia, per l’Olanda, per la Spagna e per la stessa Francia. A maggior ragione per l’Italia dove non mancano le sparate elettorali dell’ex premier e la credibilità dei nostri politici è pressoché zero, grazie ai festini che farebbero invidia a Trimalchione, l’arricchito liberto romano, ed alle appropriazioni indebite di denaro pubblico dal Nord a Sud.
Certo non si può fare di ogni erba un fascio, ma se l’OCSE comunica, urbi et orbi, che abbiamo il più alto tasso di corruzione sono legittimate le inquietudini degli altri Stati Europei e degli stessi Stati Uniti d'America. La cancelliera Angela Merkel può dichiarare di rispettare il responso popolare di ogni Paese, ma è noto che il pensiero dominante è non ritornare al berlusconismo e considerare Monti il naturale successore di se stesso, anche per non cambiare cavallo quando si è in corsa. E ancora c’è tanto da correre.
Se la conferma di Monti può rassicurare l’Europa, che avrebbe in questo modo la certezza di una continuità sulla linea del rigore e del risanamento economico, non è altrettanto positivo per i partiti e per la politica italiana. La riproposizione di Monti segnerebbe la definitiva dichiarazione di resa della politica a governare il Paese e a relazionarsi in Europa. Non si capirebbe l’esistenza di un Parlamento quando sarebbe sufficiente a gestire la cosa pubblica un tecnico, accreditato a livello internazionale. Lo stesso Monti, che si dichiara disponibile ad una chiamata del dopo elezioni, ritiene necessario rimettere insieme “demos” e “cratos” per avviare un corretto confronto democratico in un Paese dove la sovranità risiede nel Popolo.
Non si può, in questo caso, che essere d’accordo. Altrimenti sarebbe la fine del potere al “demos”, al popolo, dal momento che il “cratos”, il potere, risiederebbe esclusivamente nella “tecne”, tecnica, in una oligarchia tecnocratica, autoreferente in quanto esperti non politici. Allora sarebbero legittimati non uno ma cento, mille Grillo.
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