Riconoscere i (propri) privilegi
La base di un autentico cambio di mentalità.
La recente proposta del Governo di portare l'orario di cattedra degli insegnanti medi da 18 a 24 ore ha suscitato un più che prevedibile vespaio di polemiche. Ha anche rinfocolato una vecchissima polemica riguardo gli orari e le retribuzioni dei dipendenti pubblici, riassumibile nella domanda: i dipendenti dello Stato sono dei privilegiati, rispetto ai privati?
Domanda retorica, in quanto la risposta è senza dubbio positiva. I dipendenti pubblici godono infatti del privilegio, mai ufficialmente riconosciuto, di avere posizioni di lavoro inattaccabili, potendo in pratica anche rifiutarsi di essere trasferiti di sede o di amministrazione.
Non solo, non hanno mai conosciuto il licenziamento per giusta causa: questo significa pure, paradossalmente, che i meccanismi di selezione pubblici sono da ritenersi perfetti.
Ricordo anche che sino a poco tempo fa gli statali andavano in pensione col 100% della retribuzione, mentre i privati con l'80. Solo con l'ultima riforma pare cominciata l 'erosione di questo inspiegabile favoritismo, per il quale sfido qualunque sindacalista a trovarne la ragione.
I tanti privilegi, però, erano in passato moderati parzialmente dalle basse retribuzioni. Negli anni '70, in Lombardia e non solo, gli insegnanti erano meridionali in quanto i laureati locali, cooptati dalle industrie, percepivano retribuzioni, in confronto,stratosferiche. Così accadeva nella val d'Arno, zona che conosco bene, dove pochissimi giovani frequentavano medie superiori e università, perché il lavoro in concia li metteva subito a cavallo della Kawasaki 750.
Il tempo è trascorso, ma le disparità di trattamento retributivo e normativo (mi riferisco sempre a parità di preparazione, mansione e livello di istruzione), ben lungi dall'attenuarsi, si sono accentuate.
Mi sembra dunque evidente che gli insegnanti, in cattedra per 18 ore settimanali per circa 9,5 mesi l'anno, debbano riconoscere che la richiesta di un aumento di produttività sia una cosa legittima. Un aumento di produttività da imporre ai neo assunti, e da proporre gradualmente agli altri, anche sotto forma di part-time.
Purtroppo i sindacati restano ancorati a posizioni obsolete: i comizi della Camusso farebbero da ottimo sfondo ad un nuovo film di Don Camillo e Peppone.
Quando invece dovrebbero occuparsi dell'introduzione di un nuovo modo di concepire il lavoro dipendente, più aderente alla realtà economica ed europea. Battersi perciò per una retribuzione chiara nella sua formulazione, con 12 mensilità annue senza doppie mensilità e TFR: ovvero il lordo annuo diviso dodici, come avviene nel resto d'Europa. L' abolizione del TFR costituirebbe motivo, tra l'altro, per la abolizione per legge delle scandalose buonuscite milionarie dei supermanager: semplicemente, non esisterebbero le buonuscite, a nessun livello.
Altra innovazione, proponibile dai sindacati, sarebbe l'obbligo della concessione del tempo parziale obbligatoria dietro semplice richiesta del dipendente, e a costo zero per il datore di lavoro (oggi due part time di 4 ore costano all'imprenditore più di un full time di 8).Questo risolverebbe molti problemi riguardanti l'occupazione in generale, e l'assistenza ai piccoli, ai malati e agli anziani.
La difficoltà, non lo nego, sta nel definire con onestà la situazione, nella rimodulazione delle retribuzioni, e nel trovare il coraggio di fare il primo passo.
Il sindacato preferisce invece insistere sulle rivendicazioni salariali, ben sapendo che, avendo l'Italia il prezzo dell'energia più alto d'Europa, non è possibile realizzare il benché minimo miglioramento reale delle condizioni economiche dei dipendenti.
Da cattolico, se vedo un dogma lo riconosco. Ma si tratta sempre di una Verità trascendentale cui credere. Mi diverte perciò un tantino vedere amici e conoscenti, appartenenti per la maggior parte alla sinistra storica, essere ossequienti a dogmi ben più cogenti, che loro chiamano diritti acquisiti, e che non hanno il coraggio di porre in discussione.
Il godimento di benefici di posizione non è una prerogativa degli insegnanti, ma di tutto il pubblico impiego,cosa che ne ha fatto la meta più ambita per un lavoratore dipendente, e di numerose categorie di autonomi. La rivisitazione delle norme per questa categoria dovrebbe essere pertanto un passo, doloroso certo per alcuni, necessario ad un riequilibrio sociale. Ma sarebbe il caso di farla prima che diventi troppo onerosa. È la grande occasione alla quale ci obbliga questa crisi economica, che sarà tanto più lunga quanto più ostinatamente ci rifiuteremo di riconoscere la realtà.
Enrico Muttoni |
Domanda retorica, in quanto la risposta è senza dubbio positiva. I dipendenti pubblici godono infatti del privilegio, mai ufficialmente riconosciuto, di avere posizioni di lavoro inattaccabili, potendo in pratica anche rifiutarsi di essere trasferiti di sede o di amministrazione.
Non solo, non hanno mai conosciuto il licenziamento per giusta causa: questo significa pure, paradossalmente, che i meccanismi di selezione pubblici sono da ritenersi perfetti.
Ricordo anche che sino a poco tempo fa gli statali andavano in pensione col 100% della retribuzione, mentre i privati con l'80. Solo con l'ultima riforma pare cominciata l 'erosione di questo inspiegabile favoritismo, per il quale sfido qualunque sindacalista a trovarne la ragione.
I tanti privilegi, però, erano in passato moderati parzialmente dalle basse retribuzioni. Negli anni '70, in Lombardia e non solo, gli insegnanti erano meridionali in quanto i laureati locali, cooptati dalle industrie, percepivano retribuzioni, in confronto,stratosferiche. Così accadeva nella val d'Arno, zona che conosco bene, dove pochissimi giovani frequentavano medie superiori e università, perché il lavoro in concia li metteva subito a cavallo della Kawasaki 750.
Il tempo è trascorso, ma le disparità di trattamento retributivo e normativo (mi riferisco sempre a parità di preparazione, mansione e livello di istruzione), ben lungi dall'attenuarsi, si sono accentuate.
Mi sembra dunque evidente che gli insegnanti, in cattedra per 18 ore settimanali per circa 9,5 mesi l'anno, debbano riconoscere che la richiesta di un aumento di produttività sia una cosa legittima. Un aumento di produttività da imporre ai neo assunti, e da proporre gradualmente agli altri, anche sotto forma di part-time.
Purtroppo i sindacati restano ancorati a posizioni obsolete: i comizi della Camusso farebbero da ottimo sfondo ad un nuovo film di Don Camillo e Peppone.
Quando invece dovrebbero occuparsi dell'introduzione di un nuovo modo di concepire il lavoro dipendente, più aderente alla realtà economica ed europea. Battersi perciò per una retribuzione chiara nella sua formulazione, con 12 mensilità annue senza doppie mensilità e TFR: ovvero il lordo annuo diviso dodici, come avviene nel resto d'Europa. L' abolizione del TFR costituirebbe motivo, tra l'altro, per la abolizione per legge delle scandalose buonuscite milionarie dei supermanager: semplicemente, non esisterebbero le buonuscite, a nessun livello.
Altra innovazione, proponibile dai sindacati, sarebbe l'obbligo della concessione del tempo parziale obbligatoria dietro semplice richiesta del dipendente, e a costo zero per il datore di lavoro (oggi due part time di 4 ore costano all'imprenditore più di un full time di 8).Questo risolverebbe molti problemi riguardanti l'occupazione in generale, e l'assistenza ai piccoli, ai malati e agli anziani.
La difficoltà, non lo nego, sta nel definire con onestà la situazione, nella rimodulazione delle retribuzioni, e nel trovare il coraggio di fare il primo passo.
Il sindacato preferisce invece insistere sulle rivendicazioni salariali, ben sapendo che, avendo l'Italia il prezzo dell'energia più alto d'Europa, non è possibile realizzare il benché minimo miglioramento reale delle condizioni economiche dei dipendenti.
Da cattolico, se vedo un dogma lo riconosco. Ma si tratta sempre di una Verità trascendentale cui credere. Mi diverte perciò un tantino vedere amici e conoscenti, appartenenti per la maggior parte alla sinistra storica, essere ossequienti a dogmi ben più cogenti, che loro chiamano diritti acquisiti, e che non hanno il coraggio di porre in discussione.
Il godimento di benefici di posizione non è una prerogativa degli insegnanti, ma di tutto il pubblico impiego,cosa che ne ha fatto la meta più ambita per un lavoratore dipendente, e di numerose categorie di autonomi. La rivisitazione delle norme per questa categoria dovrebbe essere pertanto un passo, doloroso certo per alcuni, necessario ad un riequilibrio sociale. Ma sarebbe il caso di farla prima che diventi troppo onerosa. È la grande occasione alla quale ci obbliga questa crisi economica, che sarà tanto più lunga quanto più ostinatamente ci rifiuteremo di riconoscere la realtà.
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