Il campo nomadi e il razzismo
Nel corso di uno scambio di opinioni relativo al problema del campo nomadi è stato prospettato il sospetto che io sia razzista.
Non lo sono affatto, tant’è vero che un simile sospetto non è mai balenato né nel cervello di certi amici indiani, proprio del Kerala, né di altri, equadoregni di lingua quechua. Non lo sono soprattutto da quando lessi, tanti anni fa, alcuni scritti di Gobineau, un francese di scuola positivista che sosteneva che esistesse una gerarchia tra le razze umane. Al culmine di questa gerarchia poneva, ovviamente, la razza bianca o, meglio, quella nord europea. Le altre razze, che secondo lui, addirittura, provengono da un diverso ramo dell’evoluzione, sarebbero subumane, poco intelligenti, scarsamente razionali, istintive, selvagge, animalesche.
Vittorio Guillot |
Oggi la scienza, grazie alle scoperte del Dna, è orientata ad affermare che tutti gli uomini discendono da un unico ceppo. Comunque quella teoria, scientificamente fondata su aria fritta, giustificava l’oppressione e la schiavitù praticata dai bianchi in danno delle altre popolazioni, in particolare di quelle nere e rosse.
Certo, mi chiedo se si può affermare che le responsabilità di quelle vicende furono solo dei bianchi o se non ci misero lo zampino anche gli schiavisti arabi e le tribù africane che li aiutarono e se è vero che furono proprio gli europei ad abolire per primi la schiavitù. Insomma, come per tutte le vicende umane, qualcuno può sostenere che il bene e il male siano sempre e irrimediabilmente solo e esclusivamente da una parte?
Mi chiedo anche perché la schiavitù sopravviva in molte parti del mondo, compresa l’Italia (penso alle prostitute dell’est e agli storpi e ai bambini ai semafori), e se è vero che da noi, per la debolezza dello Stato, non si riesca a far rispettare le leggi che la vietano.
Quanto al razzismo, mi colpì negativamente anche la “antropologia criminale” di Moleschott, Lombroso e Niceforo, secondo i quali la criminalità è innata naturalmente in alcune popolazioni e i sardi e le genti dell’Italia meridionale sarebbero senz’altro “razze delinquenti”. Sarei curioso di sapere come quegli “studiosi” avrebbero catalogato i nazisti tedeschi o i comunisti sovietici. Quelle teorie, scientificamente false, non mi piacquero affatto e, confesso, per un lungo periodo non mi piacquero neppure i romanzi di Grazia Deledda perché mi parve che la “forza superiore”, ineluttabile, che guida la vita e il destino degli uomini, si riducesse a quel falso determinismo biologico.
Solo più tardi pensai che si trattasse di quella forza fatale, divina, che ispira le tragedie di Eschilo. Comunque sia ho sempre disprezzato il razzismo perché ritengo che tutti gli uomini possiedano un elemento che li accomuna e dona a tutti la stessa dignità: l’intelligenza, accompagnata dalla capacità di ragionare, volere e decidere liberamente, anche se condizionata dalla situazione fisiologica e ambientale in cui opera l’uomo. Su questa dignità poggia il diritto di tutti alla vita, al lavoro, alla casa, alla salute, all’esprimere liberamente le proprie idee politiche e religiose, a vivere secondo i propri valori. Se è questa intelligenza il fondamento della dignità dell’uomo, può essere accettato quel relativismo che mette in discussione i valori che si riferiscono a essa?
Capisco che questa impostazione possa sembrare legata a un’ideologia anche se, mi domando: che senso avrebbe parlare di scambio tra le culture e di dialogo se si negasse questa unità? Mi chiedo, piuttosto, se le diversità tra le culture e tra gli individui riguardino i diversi modi in cui si intenda attuare questa unità di fondo, tenendo conto degli ostacoli , delle limitazioni e delle valutazioni umane.
Considerato questo mio modo di ragionare qualcuno può affermare che io abbia dei preconcetti razzisti o una simile attribuzione è prodotta da un’intolleranza verso chi non è perfettamente allineato con la sua impostazione mentale? Malgrado tutto ciò si può, comunque, pensare che gli uomini siano assolutamente uguali, cioè fatti con lo stampino? O, forse, non è vero che ognuno di noi è diverso dall’altro fisicamente, per attitudini, capacità, mentalità, convinzioni politiche e religiose ed ha una personalità diversa da quella degli altri?...
Personalmente mi domando se non sia il caso di prendere atto di queste differenze e, semmai, di cercare di realizzare uguali condizioni di partenza per tutti, in modo che ognuno possa manifestare nel modo miglior la propria personalità. Sarei curioso di sapere se, partendo da queste premesse, sarebbe cosa buona e giusta riconoscere i diversi meriti e responsabilità e perché l’egualitarismo sessantottino, almeno da quanto traspare dalla lettura dei suoi sacri testi, abbia rifiutato questo criterio di meritocrazia. Chiedo anche se sarebbe utile per la vita stessa della comunità che il popolo riconosca le qualità dei migliori e gli affidi democraticamente i posti di comando politico, piuttosto che lasciarli in mano a classi e caste chiuse e autoreferenziali. Domando anche se è sbagliato riconoscere a chiunque il diritto di vivere e agire secondo la cultura del proprio popolo. Con questo termine intendo il modo in cui i gruppi sociali si inseriscono nell’ambiente con la loro intelligenza, la loro volontà e i loro valori e per civiltà tutto ciò che è prodotto dalla cultura (diritto, arte,cucina, strutture sociali etc.).
Si può affermare che la cultura sia sorella della tradizione, ossia delle esperienze e delle scoperte fatte dalle generazioni precedenti, che ce le hanno tramandate? O forse no, forse è sua madre o sua figlia? Tagliando corto, non siete d’accordo che da quelle scoperte ed esperienze traiamo gran parte di ciò che ci serve per vivere quotidianamente e che da esse noi e le generazioni successive dobbiamo partire, aggiornandole , arricchendole, magari anche modificandole e correggendole? Non siete d’accordo che le società che non lasciano all’individuo la possibilità di agire liberamente, anche se nell’ambito di quello che è individuato come interesse comune, sono destinate a finire imbalsamate come la mummia di Lenin? Non so se questo sia un modo di ragionare da nuova destra. Certo non è un ragionamento da sinistra nostalgica e Marx, grande profeta dell’internazionalismo e del “pensiero unico”, se potesse leggere questa valutazione della tradizione, si rigirerebbe nella tomba, ma, francamente, non me ne frega niente!
Mi chiedo comunque, se si può rifiutare l’idea che la condivisione di una cultura e l’appartenenza a un gruppo sociale offra all’uomo un aiuto indispensabile anche se comporta necessariamente l’accettazione di regole e di limiti alla sua libertà. E si può rifiutare l’idea che gli compete la possibilità di concorrere alla formazione e modificazione di quelle regole? O gli può essere negato il diritto di rifiutarle, magari, in caso estremo, persino staccandosi dal gruppo? Mi chiedo anche l’uomo, che è un animale sociale, possa vivere, staccato dal suo popolo senza inserirsi in un altro. E se si parla di culture “superiori” o “inferiori” a chi, e perché, si può riconoscere il diritto di stabilire i parametri in base ai quali giudicare quella superiorità?
Io penso che i conflitti tra culture non nascano dalle diversità ma, piuttosto, dall’arroganza con cui si vuole imporre ad altri la propria cultura e i propri interessi . Purtroppo troppe volte ogni cultura ritiene di essere “quella vera”, superiore alle altre e, perciò, i conflitti sono sempre possibili, ma non inevitabili. Mi domando anche se a questa tentazione siano estranee le ideologie che si sono affacciate nel mondo, compreso l’illuminismo, il marxismo e il liberalismo.
Certamente in questa tentazione sono incorsi i totalitarismi, che hanno voluto imporre la costruzione di un “uomo nuovo” a immagine e somiglianza di qualche ideologo o, addirittura “una razza umana, nuova anche biologicamente”. Questa pretesa caratterizzò senz’altro la follia nazista e, se è vero quanto sentii alla televisione, anche quella comunista. Ho sentito, infatti, che Stalin, negli anni ’30, dette agli scienziati l’incarico di realizzare una nuova razza subumana, dall’incrocio dell’uomo con la scimmia. Così si sarebbero ottenuti degli esseri poco intelligenti, molto forti e più adatti a sopportare i lavori massacranti. I suoi apprendisti stregoni, però, fallirono e così abbandonata quella “brillante idea “, dovette procurarsi gli schiavi in altro modo.
Comunque, a parte questa divagazione, mi chiedo se, coerentemente con quanto ho scritto più su, sia ammissibile che, in nome di una cultura, possa essere violata la dignità dell’uomo o della donna. Ritengo di no, e mi si corregga se sbaglio, perché il compito delle culture è proprio quello di aiutare gli esseri umani a vivere su questa terra.
In questa ottica ritengo che, per esempio, non si debba vietare a una donna di indossare spontaneamente il velo perché segue una particolare tradizione religiosa e purché, per ragioni di pubblica sicurezza, si faccia riconoscere. Ritengo, invece, inammissibile che il velo o il matrimonio siano imposti. Mi chiedo anche se le culture siano impermeabili tra loro o se, invece, agli scambi reciproci sia legato gran parte del cosiddetto progresso e se siamo sicuri che nessuno, nemmeno noi occidentali, abbia niente da imparare dagli altri. Va da se che ogni popolo dovrebbe rispettare gli altri e le norme e le leggi di chi li ospita, senza alcuna differenza tra bianchi e neri, Rom e non Rom, e punire, senza se e senza ma, chi le viola. Mi rendo conto che ho ipotizzato una società ideale, forse perfetta, ma che la perfezione, realisticamente, non è di questo mondo. D’accordo, ma gli ideali, se confrontati con la realtà, non costituiscono il faro che indirizza l’attività dell’uomo e a questo fatto non è legato ciò che chiamiamo progresso?
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