Le memorie corte
L’Italia, si sa, è un Paese di Santi, Navigatori, Poeti. Ma anche di smemorati.
Giuseppe Santino |
E si sa anche che la smemoratezza produce paradossi. E dal 25 di febbraio stiamo assistendo ad una serie di paradossi; il primo dei quali è tutto nei risultati elettorali. Un partito, il PD, che vince le lezioni ma non può governare. E questo perché i cittadini hanno perso la memoria sulle responsabilità politiche della crisi che stiamo drammaticamente vivendo. Non si ricordano chi ha governato per un ventennio, dettando un’agenda politica basata esclusivamente sui conflitti fra istituzioni.
Ma tant’è che in campagna elettorale le carte si sono rimescolate. L’intrattenitore ha saputo, abilmente, capovolgere una situazione estremamente sfavorevole, e se ha perso dei voti, questi non sono andati all’avversario politico principale. In campo c’era il comico che ha fatto il suo mestiere di manipolatore, rispondendo alle reazioni istintive contro la casta, aiutato da precedenti analisi con la messa a nudo del re. Per carità, azione meritevole contro la corruzione.
E così Bersani, segretario di un partito che nel ventennio si era appena affacciato al governo del Paese e subito rimosso da beghe interne, ha visto svanire il sogno di un governo di centro sinistra, pur essendo il primo partito in termini di voti e di rappresentanti in Parlamento. Non ha saputo gridare in campagna elettorale e non ha saputo gestire la comunicazione. In un’epoca in cui il marketing è il motore non solo dell’economia, tutto questo ha un costo molto elevato.
Hanno la memoria corta anche i mezzi di comunicazione; la campagna di elogi nei confronti di Bersani e del PD al tempo delle primarie per il capo del governo sembra un’altra era, soprattutto dopo l’incontro televisivo dei quattro candidati. Finalmente una sana politica; Italia uguale USA, grazie alla sinistra che si appresta a realizzare un nuovo stile di far politica. Sembrava fatta e tanti si spellavano le mani in applausi a Bersani & C.
Dal 25 febbraio si cambia registro. L’araba fenice risorge e il PD è alle corde. Si pensa che forse è il caso di rivedere quegli entusiasmi che avevano fatto credere ad una vittoria del centro sinistra. E il bersaglio non può essere Berlusconi, che indossa la veste candida, definito coerente e disposto a fare il bene del Paese. Non c’è quotidiano, talk show e altri strumenti di comunicazione via web dove non si parla delle responsabilità del PD per la situazione di stallo e di grave crisi politica ed economica. Sembra che a governare per 20 anni sia stato il PD, il PD che ha nascosto lo stato della nostra economia; quello stesso PD che ora si incaponisce nel voler fare da solo, pur non avendo i numeri, per difendere la posizione di un segretario testardo.
Si pensa ai governissimi e ci si dimentica dell’esperienza Monti. Si dimentica che tra PD e PDL non c’è solo di mezzo una “L” ma tutto un programma politico e un bagaglio di idee e di cultura completamente diversi. Ma tutto questo non basta a far pendere l’ago della bilancia verso il centro-sinistra. È il “candido” Berlusconi ad occupare la scena con la proposta di accordi per il bene collettivo e, con tanto di faccia tosta, addossa a Bersani la responsabilità delle difficoltà politiche del dopo voto. Per il centro destra, ringalluzzito dai risultati politici e stretto ancora una volta attorno al “salvatore,” il PD è una forza politica che non tiene conto dell’interesse dei cittadini, e cosi i berlusconiani nascondono il “particulare:” interesse del capo, che è il leit-motiv di 20 anni di politica. Ma non ce ne ricordiamo.
E mi sembra di assistere ad un altro film. Si vede affiorare un altro paradosso: la scissione che equivarrebbe alla scomparsa del partito di maggioranza relativa, il PD. Un partito vince le elezioni, pur con i limiti ricordati e si divide al suo interno sulle scelte future.
È il risultato, come lo stesso Franceschini ha ammesso in una nota trasmissione televisiva, di un radicamento profondo alle proprie origini delle diverse anime del PD. È il caleidoscopio di culture e di visioni, che lo caratterizza, il vero ostacolo alla nascita di un partito che si riconosca in condivisi ideali e prospettive di sviluppo della società. È il peccato di origine di occhettiana memoria: l’aver sostituito un partito con una forte identità con un altro che è un mosaico formato da un insieme di tessere alla rinfusa senza creare una immagine ben definita.
Questo eterno conflitto porta il PD a mettere costantemente in discussione la propria politica, le proprie scelte programmatiche, le proprie alleanze, una collocazione politica ben definita e sicura e la propria leadership. Al suo interno il dibattito è sempre aperto, diversamente dal PDL e da M5Stelle dove non si discute e si accettano le decisioni dei padroni, ma l’eccessivo dibattito può portare alla creazione di continui conflitti. E il ministro Barca, neo iscritto al PD, pone l’accento sul problema identitario e di sinistra per far uscire il partito dalle pastoie in cui si è cacciato.
Anche se il giovane rottamatore Renzi auspica un governo di larghe intese con il PDL ma con gli occhi rivolti alle elezioni politiche ravvicinate che lo vedrebbero leader di coalizione, con il beneplacito di D’Alema, il principale avversario di appena quattro mesi fa. Aveva detto, subito dopo il voto, che non avrebbe abbandonato Bersani e non lo avrebbe pugnalato alle spalle. Non ha adoperato né il fioretto né il pugnale ma l’accetta.
Forse, considerata anche la posizione di Grillo, la soluzione per il superamento della situazione di stallo è il ricorso alle urne, più che un nuovo incarico a Bersani o ad altro da parte del nuovo presidente, sperando, questa volta, che i cittadini elettori si decidano a chi affidare le sorti del Paese, senza tentennamenti ed incertezze per poi valutarne l’operato senza confusioni di ruoli e di responsabilità. Sarebbe un modo per fare chiarezza e istaurare un clima politico non inficiato da sospetti compromissori fra le diverse forze politiche.
Sarebbe, anche, il momento di dare a Grillo un mandato ben preciso, che non può essere quello dello sfascio e del tutti a casa, ma quello di concorrere alla ricostruzione politica, morale ed economica, per porre rimedio all’altro paradosso, quello più grave, creato dalla riforma del lavoro perseguita dal ministro Fornero. Ormai è a tutti noto che non ha dato i suoi frutti così come era stato sbandierato e l’uscita dal lavoro è la manifestazione più drammatica di una economia che ormai stenta molto ad imboccare la strada della rimonta.
Sembra che il lavoro sia diventato un optional, con cui giocare in vari modi, togliendogli, dignità e valore sociale. La valenza etica del lavoro viene sminuita e cancellata, magari dietro espressioni non felici, salvo scuse a posteriori. Uscire dal mondo del lavoro forzatamente, o non poterci entrare, porta ad una confusione intellettiva che genera una profonda crisi di valori della persona. E quando si è convinti che si è persa la dignità, per riaffermarla non c’è che il salto nel buio.
È lì. Basta allungare la gamba.
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