Il fallimento dell’io porta alla violenza
La classe politica, tutta, sembra che stia guardando da un’altra parte.
Giuseppe Santino |
Il fallimento dell’io porta alla violenza. Ed è un processo dimostrato in psicoanalisi come nella realtà della cronaca.
Questo fallimento ha origini diverse, tutte però convergenti nel rapporto tra l’individuo e la collettività a cui appartiene.
Nell’ambito strettamente psicoanalitico il fallimento dell’io, come argomenta Massimo Recalcati, nasce dal non riconoscimento degli altri e dalla non rinuncia al narcisismo che impedisce di vedere e considerare l’esistenza degli altri componenti della collettività come necessaria alla propria. L’egocentrismo e la convinzione della propria superiorità può portare anche a considerare i legami sociali come un ostacolo al proprio successo e a volte la rimozione dell’ostacolo non può che essere violenta.
Viene a mancare la freudiana “frustrazione narcisistica” necessaria per il progresso della collettività. Questo sul piano puramente delle relazioni individuali e nella sfera della psicoanalisi.
Ma c’è un altro fallimento dell’io che, se giunge ad avere dei riflessi psicoanalitici, ha origine nella crisi dell’io sociale, cioè delle relazioni socio-economiche travolte da un sistema in disfacimento. L’attuale situazione economica, con forte caratteristica recessiva, di fatto annulla quell’io sociale che si contrappone all’io narcisista e la conseguenza non può che essere il sopravanzare di un senso di impotenza e solitudine.
Si entra in una dimensione nuova dove i legami che reggevano la collettività sono annullati e niente ha più ragione di esistere. L’appuntamento con la violenza è molto vicino. Viene meno il rispetto di sé, sommerso dal senso di nullità dell’esistenza dovuto all’assenza del lavoro. La dignità della persona, in rapporto positivo con gli altri, viene annullata dalla impossibilità di costruire un’idea di futuro e poterla perseguire, in un sistema sinergico dove il collante è il bene comune. Viene meno il legame con gli organismi rappresentativi, partiti e sindacati, e di conseguenza si diffonde un senso di sfiducia nelle Istituzioni.
Havel, il presidente ceco avversario del comunismo, metteva in guardia sul rischio di continuità tra il totalitarismo e la democrazia insito nella “elusione dell’uomo”, cioè nel considerare l’uomo come una entità manipolativa e per tanto incapace di opporre resistenza agli esperimenti, come se la società fosse un laboratorio sperimentale e l’uomo una semplice cavia. Ma ne “Il potere dei senza potere”, il suo libro di recente ripubblicato, analizza questo rapporto ed evidenzia come l’impotente ha poteri che neanche immagina. Quando però prende coscienza di questo potere, se non si è all’interno di un sistema che non esclude l’uomo ma lo valorizza come parte fondante della collettività, la violenza è ad un passo dall’esplodere. La solitudine dell’io che diviene solitudine del cittadino si trasforma in ribellione contro il sistema, una rivolta cieca ed irrazionale che tende a distruggere senza distinzione.
Questo rischio è avvertito da tutti. Dal ministro Alfano, per il quale la crisi economica e la povertà generano disagio che può trasformarsi in azioni di violenza, alla Presidente della Camera che avverte sui rischi della democrazia, come nella Germania del primo dopoguerra, al Presidente della BCE Draghi per il quale la disoccupazione giovanile genera “forme di proteste estreme e distruttive” e Grillo che parla di “conflitti sociali incontrollabili”.
Gli ingredienti esplosivi sono tutti presenti nello stesso involucro e potrebbe bastare una piccola scintilla. Ma la classe politica, tutta, sembra che stia guardando da un’altra parte e non si rende conto di trovarsi in un campo minato. La parola d’ordine è “pacificazione politica” soprattutto da parte della destra, la vera responsabile del disastro.
Nella riappacificazione, in un sistema in cui tutti, a diverso titolo, sono responsabili, c’è implicita l’autoassoluzione, prima, e la giustificazione dell’altro, poi. In questo modo si pensa di superare la difficoltà per continuare sul percorso tracciato. E’ la fine della democrazia. In un sistema democratico, con la presenza di diversi soggetti politici, con programmi diversi e diverse prospettive, la riconciliazione è l’atteggiamento politico-sociale che tende ad uniformare e ad omologare posizioni diverse e ad annullare diverse prospettive di sviluppo sociale, economico, culturale e politico.
Non può esserci conciliazione in una democrazia che fa della dialettica politica la propria forza altrimenti c’è il rischio di vedere sempre tutte le vacche nere. Il tentativo in atto di riappacificazione delle larghe intese è il risultato di questa crisi così come la nascita e la crescita di movimenti che traggono dal malcontento dei cittadini la propria forza. Sono i nuovi rivoluzionari, alla Grillo, capaci di infiammare ma incapaci di dare risposte concrete a quella solitudine che porta all’autoviolenza e alla violenza contro i rappresentanti delle Istituzioni.
Non credo sia stato un atto rivoluzionario, viste anche le conseguenze, il non aver permesso, in considerazione di tutti ladri tutti a casa, la nascita di un governo a guida Bersani. Di recente Massimo Cacciari ha fatto un profilo del rivoluzionario e delineato i tratti di una rivoluzione. Le vere rivoluzioni e i veri rivoluzionari non tagliano di netto i ponti col passato; creano un mondo che è la trasformazione dell’esistente. Il nuovo nasce dal vecchio che viene “trapassato”.
Ho avuto già modo di dire che occorre “uccidere” il padre per poter avere una visione nuova della società e progettare un futuro migliore. Ma l’uccisione comporta che qualcosa continui a vivere nel nuovo come elemento di ordine e di garanzia e che si traduce nella sopravvivenza di valori e diritti fondamentali. L’atto rivoluzionario, di fatti, rischia di naufragare tra due estremi; uno riguarda, appunto, l’assenza di un sistema di valori e diritti fondamentali che può portare ad un continuo conflitto nelle relazioni socio-politiche per il prevalere degli interessi personali su quelli collettivi; l’altro, la non consistenza del nuovo, con il rischio di una ubbidienza postuma al padre che annulla l’effetto rivoluzionario e finisce con il perpetuare il sistema, peggiorandolo. E Cacciari scrive che il rinnovatore non può essere “l’innocente che si erge a modello dell’ordine nuovo” col rischio di “una folle idea di indefinita rivoluzione permanente”.
Ed è quello a cui portano, per strade diverse, Grillo e Berlusconi. Il primo animato da “puro e duro” sdegno verso una classe politica corrotta ed incapace. Si fa strada l’idea che questa può essere sostituita da una nuova classe, quella della democrazia diretta del Web, in un sistema controllabile da una sola persona, in barba alle affermazioni continue di democrazia. Il secondo in una eterna lotta alle istituzioni ed alla magistratura. Con il PD alla ricerca di una sua identità politica.
Non può esserci niente di più lontano dal senso di nullità e di impotenza di chi non ha o ha perso il lavoro e con esso la dignità. C’è da augurarsi che chi non ha potere prenda consapevolezza del potere che realmente ha e lo usi, democraticamente, non per riappacificare ma per marcare le diversità programmatiche e le prospettive diverse. Decidere del proprio futuro senza cedere alle sirene di false rivoluzioni e al fascino del narcisismo di chi ritiene se stesso al di sopra delle leggi.
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