Tragedia di Genova: fisica e morale
Chi ha autorizzato la costruzione, ha tenuto conto di tutti rischi relativi al suo posizionamento?
Enrico Muttoni |
La tragedia del crollo della torre del porto di Genova è una crudele dimostrazione di quelle leggi della fisica che tanto ci hanno annoiato a scuola, causa la loro apparente astrusità.
Ma i docenti dovrebbero far tesoro di questo tragico avvenimento per spiegare ai loro allievi la differenza tra peso e massa, così difficile da percepire. Infatti noi tutti, per misurare i pesi, usiamo le bilance: che, in realtà, misurano delle masse (tranne quelle elettroniche, ma questa è un’altra storia).
Ora, il peso del cargo investitore a Genova era zero, in quanto totalmente controbilanciato dalla spinta di Archimede, il galleggiamento. Ma le sue 40000 tonnellate di massa erano tutte lì e, moltiplicate per una sia pur bassissima velocità, hanno generato tanta energia cinetica da distruggere un fabbricato, così bene da sembrare opera di artificieri demolitori.
Fin qui la fisica. Ma perché quella torre era lì? Per un accumulo di piccole presunzioni e furberie che hanno portato a sottovalutare (speriamo non deliberatamente) il rischio di quanto è poi effettivamente accaduto.
Ho immaginato il processo logico attuato: la compagnia dei piloti di porto di Genova ha necessità di una nuova sede operativa. Scartata l’ipotesi di un ripristino di vecchi stabili, si decide di farne uno nuovo; dove?
Trovare un’area nel porto di Genova è impossibile o costa troppo, argomento decisivo. Allora si decide di edificare sull’acqua: il progettista immerge i piloni portanti, e tira su una struttura moderna, fatta di prefabbricato di cemento, vetro, acciaio e cartongesso. Purtroppo la massa dell’edificio risulterà, come si è visto, assolutamente incapace di contrastare quella della nave.
Arriviamo quindi alla domanda decisiva: chi ha autorizzato la costruzione, ha tenuto conto di tutti rischi relativi al suo posizionamento? Evidentemente no. Quanti di noi, parlo di coloro che si autodefiniscono tecnici, avrebbero ipotizzato quello che poi è accaduto? Quando si progetta una centrale nucleare, è necessario tener conto del peggior evento ipotizzabile, dalla caduta degli aerei, ai terremoti, agli tsunami: abbiamo la dimostrazione di quello che è successo quando, a Fukushima, l’onda è risultata di due metri più alta dei sei ipotizzati dal progettista.
Ora verrà dato il via, secondo la peggio tradizione italiana, alla caccia alle responsabilità. Che, come in quasi tutte le sciagure in cui il caso ha avuto parte predominante, sarà inutile, in quanto parcellizzata (la responsabilità) tra un numero non piccolo di individui, i quali, ciascuno nel suo piccolissimo, avrà commesso un’omissione: per incompetenza, o per non apparire come un rompiscatole, o per non contrastare un volere superiore. Ma un'omissione di cui non si sentirà mai colpevole, perchè piccola e ripetuta infinite volte.
A meno che a bordo non ci fosse un altro Schettino. Resta il fatto che il fabbricato, comunque, non doveva essere lì.
La morale è che tra tutti coloro che hanno avuto parte, anche piccolissima, in questa tragedia, nessuno è esente da responsabilità. Ma se c’è un responsabile, che la fa sempre franca, è il costume italiano, che pervasivamente ha fatto sì che, negli anni, tutte le piccole incompetenze venissero portate, tramite le raccomandazioni, ai livelli decisionali. I quali, per auto proteggersi, ben si guardano dal contrastare quello che si vuole là dove si può: tanto, cosa vuoi che succeda? Appunto.
Ora, il peso del cargo investitore a Genova era zero, in quanto totalmente controbilanciato dalla spinta di Archimede, il galleggiamento. Ma le sue 40000 tonnellate di massa erano tutte lì e, moltiplicate per una sia pur bassissima velocità, hanno generato tanta energia cinetica da distruggere un fabbricato, così bene da sembrare opera di artificieri demolitori.
Fin qui la fisica. Ma perché quella torre era lì? Per un accumulo di piccole presunzioni e furberie che hanno portato a sottovalutare (speriamo non deliberatamente) il rischio di quanto è poi effettivamente accaduto.
Ho immaginato il processo logico attuato: la compagnia dei piloti di porto di Genova ha necessità di una nuova sede operativa. Scartata l’ipotesi di un ripristino di vecchi stabili, si decide di farne uno nuovo; dove?
Trovare un’area nel porto di Genova è impossibile o costa troppo, argomento decisivo. Allora si decide di edificare sull’acqua: il progettista immerge i piloni portanti, e tira su una struttura moderna, fatta di prefabbricato di cemento, vetro, acciaio e cartongesso. Purtroppo la massa dell’edificio risulterà, come si è visto, assolutamente incapace di contrastare quella della nave.
Arriviamo quindi alla domanda decisiva: chi ha autorizzato la costruzione, ha tenuto conto di tutti rischi relativi al suo posizionamento? Evidentemente no. Quanti di noi, parlo di coloro che si autodefiniscono tecnici, avrebbero ipotizzato quello che poi è accaduto? Quando si progetta una centrale nucleare, è necessario tener conto del peggior evento ipotizzabile, dalla caduta degli aerei, ai terremoti, agli tsunami: abbiamo la dimostrazione di quello che è successo quando, a Fukushima, l’onda è risultata di due metri più alta dei sei ipotizzati dal progettista.
Ora verrà dato il via, secondo la peggio tradizione italiana, alla caccia alle responsabilità. Che, come in quasi tutte le sciagure in cui il caso ha avuto parte predominante, sarà inutile, in quanto parcellizzata (la responsabilità) tra un numero non piccolo di individui, i quali, ciascuno nel suo piccolissimo, avrà commesso un’omissione: per incompetenza, o per non apparire come un rompiscatole, o per non contrastare un volere superiore. Ma un'omissione di cui non si sentirà mai colpevole, perchè piccola e ripetuta infinite volte.
A meno che a bordo non ci fosse un altro Schettino. Resta il fatto che il fabbricato, comunque, non doveva essere lì.
La morale è che tra tutti coloro che hanno avuto parte, anche piccolissima, in questa tragedia, nessuno è esente da responsabilità. Ma se c’è un responsabile, che la fa sempre franca, è il costume italiano, che pervasivamente ha fatto sì che, negli anni, tutte le piccole incompetenze venissero portate, tramite le raccomandazioni, ai livelli decisionali. I quali, per auto proteggersi, ben si guardano dal contrastare quello che si vuole là dove si può: tanto, cosa vuoi che succeda? Appunto.
Altri in
Recenti in
Recenti in
Commenti