In nome del popolo
L’autonomia non deve spettare al singolo magistrato, ma all’ordinamento giudiziario.
Vittorio Guillot |
Anche su questo giornale telematico ho espresso la mia cordiale antipatia per certi comportamenti eccessivamente “spensierati” tenuti da Silvio Berlusconi. Non entro, comunque, nel merito delle sue recenti condanne per i semplice fatto che spero che giustizia sarà fatta quando quelle sentenze saranno “passate in giudicato” e, cioè, dopo aver esperito i previsti tre gradi di giudizio.
Fra l’altro i processi mediatici e popolari, niente affatto garantisti, non mi sono mai piaciuti. Certamente non metto neppure becco sulla sua morale sessuale, che riguarda lui e, semmai, la sua famiglia. Non sopporto quel personaggio però perché, stando alle sue stesse dichiarazioni, ha frequentato donnine allegre senza neppure verificare di chi fossero figlie o nipoti. Non pare che questo fatto sia di estrema gravità per un capo do governo che, più di ogni altro cittadino, è tenuto a verificare le sue amicizie perché quelle “signorine”, a “sua insaputa”, sarebbero potute essere delle spie al soldo di qualche potenza ostile all’Italia.
Ciò non toglie che io sia altrettanto convinto che, in questo Paese, il problema della politicizzazione della magistratura, esista almeno dagli anni ’60, quando, cioè, si consentì la formazione di correnti fondate su basi ideologiche. Perciò, a prescindere dai fatti contingenti, penso che il nostro sistema giudiziario debba essere profondamente riformato.
Si dice comunemente che, in un sistema veramente democratico, la magistratura deve essere indipendente dal potere politico. Ne sono convintissimo, così come, d’altro lato, penso che non debba neppure condizionare le altre funzioni pubbliche. Perciò deve esserle riconosciuto il dovere di pronunciarsi sull’applicabilità tecnica delle leggi, ma non il diritto di fare valutazioni di opportunità politica né di far sorgere neppure il sospetto che inchieste e sentenze siano usate come armi politiche improprie.
Si dice comunemente che, in un sistema veramente democratico, la magistratura deve essere indipendente dal potere politico. Ne sono convintissimo, così come, d’altro lato, penso che non debba neppure condizionare le altre funzioni pubbliche. Perciò deve esserle riconosciuto il dovere di pronunciarsi sull’applicabilità tecnica delle leggi, ma non il diritto di fare valutazioni di opportunità politica né di far sorgere neppure il sospetto che inchieste e sentenze siano usate come armi politiche improprie.
A me questo sospetto è sorto tutte le volte che qualche magistrato passò disinvoltamente dalla carriera giudiziaria alle aule del Parlamento e mostrò, in tal mondo, una vicinanza a certi partiti, di fronte alle cui porte molte inchieste si bloccarono misteriosamente.
A ciò aggiungo, con tutto il rispetto per la Costituzione, che può essere modificata ma non ignorata o violata impunemente, che penso che la divisione dei poteri non sia sufficientemente marcata. Non mi piace, in particolare, il fatto che un terso dei membri del Csm sia eletto dal parlamento (art.104) e due terzi della Corte Costituzionale (art.135) siano scelti dal Presidente della Repubblica, a sua volta eletto dal Parlamento, e dallo stesso Parlamento. Mi pare, infatti, che, in tal modo le interferenze politiche sulla funzione giudiziaria siano molto marcate.
A ciò aggiungo, con tutto il rispetto per la Costituzione, che può essere modificata ma non ignorata o violata impunemente, che penso che la divisione dei poteri non sia sufficientemente marcata. Non mi piace, in particolare, il fatto che un terso dei membri del Csm sia eletto dal parlamento (art.104) e due terzi della Corte Costituzionale (art.135) siano scelti dal Presidente della Repubblica, a sua volta eletto dal Parlamento, e dallo stesso Parlamento. Mi pare, infatti, che, in tal modo le interferenze politiche sulla funzione giudiziaria siano molto marcate.
La Costituzione, inoltre, afferma che il magistrato debba rispondere di fronte alla legge del suo operato, e non solo di fronte a se stesso o di fronte alla sua ideologia, perché non è un piccolo sovrano assoluto né ha ricevuto la sua investitura direttamente da Dio. La magistratura, e il singolo magistrato, cioè, non può essere considerata come un’entità separata dal contesto sociale, culturale e giuridico dal quale nascono le norme su cui deve pronunciarsi, tanto è vero che i magistrati esercitano la loro funzione in nome del popolo e non in nome di sé stessi o della loro ideologia.
Ritengo, perciò, che debbano applicare le leggi alla luce del suddetto contesto. In altri termini credo che l’autonomia non debba essere considerata individuale né spettare al singolo magistrato, ma all’ordinamento giudiziario nel suo complesso, rappresentato dal Capo dell’Ufficio, al quale dovrebbe competere l’applicazione della giustizia nell’ambito della sua giurisdizione. A lui, quindi, dovrebbe spettare il controllo della mole e della qualità di lavoro svolto da ciascun magistrato dipendente e accertare se la applicazione ed interpretazione delle leggi sia in sintonia con la volontà del legislatore. Così si potrebbe anche ottenere una maggiore omogeneità dei giudizi e, quindi, assicurare ai cittadini quell’analogia di trattamento che garantirebbe la certezza del diritto.
Va da sé che la carriera dei magistrati dovrebbe progredire se le valutazioni del loro operato e dei loro meriti fossero positive. Il Capo Ufficio, a sua volta, dovrebbe rispondere della sua attività a un collegio composto da giuristi non provenienti né dal potere politico né dall’ordinamento giudiziario e scelti secondo oggettivi titoli di merito. Penso ad alti funzionari, grandi avvocati a riposo, professori universitari.
Infine, dato che l’attuale sistema giudiziario è spesso accusato di consentire ai suoi membri di invadere la funzione legislativa, credo che i magistrati debbano comportarsi come la moglie di Cesare, che, non doveva neppure dare adito a chiacchiere.
Perciò vieterei loro sia la facoltà di svolgere consulenze esterne, ben retribuite, sia quella di svolgere lavoro dipendente o di iscriversi a partiti politici e di candidarsi alle elezioni (persino a quelle dei comitati di quartiere!) a meno che non abbiano lasciato definitivamente la loro attività da lunghi anni.
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