A proposito di tavolini: viva la libertà!
Sui tavolini, libertà individuali e politiche pubbliche.
Arnaldo 'Bibo' Cecchini |
Confesso che quando il Pci cambiò nome a una domanda su quale nome avrei dato al nuovo partito della sinistra risposi anche (c’erano tre opzioni) “Partito delle libertà”. Quel plurale mi parlava sia delle libertà cosiddette “negative” (libertà da) sia di quelle cosiddette positive (libertà di).
Noi di sinistra a volte pensiamo che sia necessario indicare alle persone quello che devono fare, invece di lasciare che abbiano le possibilità e le capacità di fare quel che vogliono. È un errore, a mio avviso. In realtà la cosa non è così semplice: anche il liberalismo classico riconosce che la libertà, fondamento della dignità dell’individuo e “dio padre” nella trinità con eguaglianza e fraternità, non è assoluta, ma trova il suo limite nel non ledere la libertà altrui.
Ad esempio credo che sia giusto riconoscere la libertà a chi ama andare in automobile di farlo, anche con un SUV se del caso, sino a che questa libertà non limita la libertà di altri, di chi vuol andare a piedi, in bicicletta, in bus; se per riconoscere la libertà dei primi si organizzano le strade e si investono le risorse per consentire solo a loro di muoversi liberamente, la libertà totale di riduce, il diritto a essere liberi è conculcato. La libertà dei più deboli, tra l’altro, va considerata più preziosa.
Direte: e i tavolini?
Credo che dovremmo fare alcune premesse, ricordandoci di quanto sinora scritto.
La prima è che i tavolini occupano uno spazio pubblico; fanno concorrenza ai parcheggi, agli spazi per il gioco, alle aree per il libero godimento della città, determinano un paesaggio diverso da altri paesaggi esistenti o possibili.
La seconda è che l’iniziativa economica degli individui è una cosa molto positiva e che ciascuno è libero di intraprenderla, anche rovinandosi e fallendo se sbaglia; la libertà di intraprendere non è neppur essa assoluta, ma deve rispettare altre libertà: ad esempio quella degli altri di non essere sottoposti a inquinamento o a rumori molesti, e anche quella di chi lavora al rispetto della sua dignità.
La necessità e l’opportunità di regolare l’uso a fini privati degli spazi pubblici, con appositi meccanismi (ad esempio le concessioni) non sono in discussione, così come la necessità di sanzionare l’appropriazione privata di spazi pubblici (una volta si sarebbe detto “rubare alla vedova e all’orfano”) siano essi spiagge, strade, piazze; io direi che va sanzionata con severità e prontezza.
Veniamo ai tavolini.
Comincerei da una cosa molto semplice: la trasparenza. Ogni concessione pubblica deve essere nota a tutti: non con un faticoso accesso agli atti, ma, direi, automaticamente, su un database in rete, con le caratteristiche, il costo, la data di richiesta e di approvazione, i nomi e cognomi di chi ha approvato, la perimetrazione esatta (se ci si dotasse di un GIS accessibile in rete, sarebbe facilissimo verificare).
In secondo luogo le regole; la concessione pubblica configura in qualche misura obbligo di servizio pubblico: bagni accessibili, periodo di apertura, manutenzione e cura, diritti di passaggio.
In terzo luogo serve un piano che definisca quali aree sono utilizzabili e quali no e la percentuale di suolo che zona per zona può essere occupato, quale può essere la percentuale massima di area scoperta rispetto all’area interna, per tipologia di attività.
In quarto luogo servono rigorose indicazioni estetiche: una sorta di abaco degli arredi ammessi che va in automatico, se poi qualcuno si fa progettare il gazebo da Rem Koolhaas si sottoponga a una valutazione.
Infine serve una politica fiscale a sostegno di quella urbanistica, variare tasse e percentuali per evitare l’eccesso di concentrazione e favorire la distribuzione delle attività su aree più ampie.
Queste scelte vanno fatte coinvolgendo la popolazione direttamente interessata.
Ho già scritto che spesso il proliferare di pubblici esercizi (ormai quasi tutti ristoranti di fatto: i bar servono pranzi e cene, non solo panini, tramezzini o toast, ora servano anche ogni piatti o pizze, più o meno precotti: non so se è un bene) è un sintomo della crisi: butto gli ultimi risparmi e spero di cavarmela (anche se non so fare il mestiere, difficile, di barista o ristoratore), resisto pochi mesi e poi vado in malore e vengo rilevato da un altro disperato.
Una banale domanda: se i turisti non crescono di numero e spendono meno, se la crisi fa andare a mangiar fuori le persone meno spesso, come si reggono le decine e decine di bar-ristoranti che nascono come funghi dopo la pioggia?
Magari, concentrandosi nelle aree di pregio, sottraggono clienti ad altri esercizi più diffusi, ma, come è noto: “è la somma che fa il totale”.
Continuo a essere convinto che una pubblica amministrazione possa far molto per garantire la libertà dei cittadini di intraprendere e la libertà dei cittadini di godere lo spazio pubblico: una saggia politica può far convivere queste due libertà.
Esattamente quel che non succede senza politiche pubbliche, quando un’amministrazione non c’è.
In secondo luogo le regole; la concessione pubblica configura in qualche misura obbligo di servizio pubblico: bagni accessibili, periodo di apertura, manutenzione e cura, diritti di passaggio.
In terzo luogo serve un piano che definisca quali aree sono utilizzabili e quali no e la percentuale di suolo che zona per zona può essere occupato, quale può essere la percentuale massima di area scoperta rispetto all’area interna, per tipologia di attività.
In quarto luogo servono rigorose indicazioni estetiche: una sorta di abaco degli arredi ammessi che va in automatico, se poi qualcuno si fa progettare il gazebo da Rem Koolhaas si sottoponga a una valutazione.
Infine serve una politica fiscale a sostegno di quella urbanistica, variare tasse e percentuali per evitare l’eccesso di concentrazione e favorire la distribuzione delle attività su aree più ampie.
Queste scelte vanno fatte coinvolgendo la popolazione direttamente interessata.
Ho già scritto che spesso il proliferare di pubblici esercizi (ormai quasi tutti ristoranti di fatto: i bar servono pranzi e cene, non solo panini, tramezzini o toast, ora servano anche ogni piatti o pizze, più o meno precotti: non so se è un bene) è un sintomo della crisi: butto gli ultimi risparmi e spero di cavarmela (anche se non so fare il mestiere, difficile, di barista o ristoratore), resisto pochi mesi e poi vado in malore e vengo rilevato da un altro disperato.
Una banale domanda: se i turisti non crescono di numero e spendono meno, se la crisi fa andare a mangiar fuori le persone meno spesso, come si reggono le decine e decine di bar-ristoranti che nascono come funghi dopo la pioggia?
Magari, concentrandosi nelle aree di pregio, sottraggono clienti ad altri esercizi più diffusi, ma, come è noto: “è la somma che fa il totale”.
Continuo a essere convinto che una pubblica amministrazione possa far molto per garantire la libertà dei cittadini di intraprendere e la libertà dei cittadini di godere lo spazio pubblico: una saggia politica può far convivere queste due libertà.
Esattamente quel che non succede senza politiche pubbliche, quando un’amministrazione non c’è.
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