La nostra lingua ci riflette
Pensieri per una politica sulle lingue dei sardi.
Tonio Mura |
C’è un tema che è centrale quando si parla dei processi di colonizzazione e di dipendenza: la lingua. A questo proposito il Mahatma Gandhi, in un discorso tenuto all’Università Induista di Benares per celebrarne l’apertura, con tono apertamente polemico disse:” (…) Considero profondamente umiliante e vergognoso per noi il fatto di vedermi costretto, questa sera, all’ombra di questa grande università, in questa città sacra, a rivolgermi ai miei concittadini in una lingua che mi è estranea”. La circostanza, infatti, e una parte degli invitati, imponevano l’uso dell’inglese e non quello della lingua del posto, cioè l’hindi. Subito dopo Gandhi aggiunse: ”La nostra lingua ci riflette, e se mi dite che le nostre lingue sono troppo povere per esprimere i concetti migliori, per me è come se mi diceste che prima ci priveranno della nostra esistenza, meglio sarà per noi”.
Era il 4 febbraio 1916 e la reazione dei presenti fu tale che da lì a poco Gandhi prima fu interrotto e poi dovette rinunciare di portare a termine il suo intervento. Perché una tale reazione? Cosa disse Gandhi di così offensivo? Ebbene, Gandhi denunciò il processo di colonizzazione dell’India ad opera degli inglesi, e lo fece nel luogo della cultura per eccellenza, cioè l’università. Lo fece evidenziando come fosse paradossale che in un paese di grandi tradizioni si dovesse studiare usando una lingua straniera. Lo disse segnalando che ogni giovane indiano, costretto a istruirsi per il tramite della lingua inglese, perdeva almeno sei preziosi anni di vita. Lo disse sperando che l’istruzione universitaria dei giovani indiani potesse venire impartita nei loro idiomi.
Dall’India alla Sardegna il passo è breve. Con l’ingresso della Sardegna nel Regno d’Italia iniziò (per non dire continuò) anche il processo di italianizzazione della nostra isola. La scuola, a partire da quella del Casati, è stato lo strumento che più di altri ha operato affinché i sardi apprendessero la nuova lingua, cioè l’italiano. Il resto lo ha fatto il servizio di leva, la burocrazia e, a partire dalla fine degli anni ’50, la TV di Stato. E tutto questo è stato possibile nonostante il sardo sia una lingua più antica di quella di Dante! Anzi il sardo veniva (per non dire viene) declassato a dialetto. L’ingresso nell’alta società era direttamente proporzionale al livello di conoscenza della lingua ufficiale del Regno.
La lezione di Gandhi ci invita a non abbandonare l’uso del sardo, o di qualsiasi altro idioma usato dalla gente di Sardegna, ad esempio l’algherese. Il perché è presto detto: la nostra lingua ci riflette! Detto in altri termini: noi siamo la nostra lingua. “Le parole sono azioni” diceva L. Wittgenstein, e non è indifferente dire le stesse parole in una lingua anziché in un’altra. I musulmani leggono il Corano solo in arabo, e non per niente ogni moschea che si rispetti ha la sua scuola coranica, la madrasa, dove appunto si studia quella che è considerata la lingua di Allah. Ogni traduzione del Corano, poi, è solo una rappresentazione imperfetta dei suoi contenuti, perché sin dalle origini per i seguaci di Maometto “tradurre è come tradire”.
Il legame di un popolo con la sua lingua, quindi, è strettissimo. Così stretto che per le potenze coloniali è il primo elemento da indebolire attraverso l’imposizione di una nuova lingua. Può accadere, però, che la nuova lingua non sostituisca del tutto la lingua di appartenenza del popolo sottomesso, e che di fatto questa sia semplicemente considerata una seconda lingua. Questa forma di resistenza la dice lunga sul significato identitario di una lingua, sul ruolo che essa riveste quando si tratta di definire la propria appartenenza sociale e culturale. Cosa di non poco conto, specialmente quando proprio attraverso le forme di riappropriazione della propria lingua si vuole combattere l’assoggettamento coloniale. E’ il caso della Corsica, dei corsi e del corso. Qui il processo di riappropriazione del corso si è spinto a tal punto da far diventare lo studio della lingua locale materia scolastica, e attraverso la lingua sono veicolate la storia, la cultura, le tradizioni, il canto e la musica e quant’altro va a definire la condizione del popolo corso. Diciamo che la nuova sensibilità linguistica più che al rifiuto della nuova lingua ci spinge al recupero di quella del posto. Non solo: le esigenze del mondo globalizzato ci spingono a conoscere più lingue, relativizzando così il peso della lingua imposta dalle forze colonizzatrici o dai regimi totalitari.
Veniamo alla Sardegna e ai sardi, ad Alghero e agli algheresi, a Carloforte e ai carlofortini. Qui si parlano lingue di peso, purtroppo si parlano sempre di meno, però si tratta di lingue che nonostante il continuo processo di italianizzazione non sono scomparse. Mi sembra un buon punto di partenza per impostare un programma di riappropriazione delle nostre lingue tradizionali, con tutto ciò che ne consegue in termini anche politici. Il che significa che prima di sentirci italiani siamo sardi, e tali rimaniamo anche quando parliamo in inglese o in spagnolo.
La lezione di Gandhi ci invita a non abbandonare l’uso del sardo, o di qualsiasi altro idioma usato dalla gente di Sardegna, ad esempio l’algherese. Il perché è presto detto: la nostra lingua ci riflette! Detto in altri termini: noi siamo la nostra lingua. “Le parole sono azioni” diceva L. Wittgenstein, e non è indifferente dire le stesse parole in una lingua anziché in un’altra. I musulmani leggono il Corano solo in arabo, e non per niente ogni moschea che si rispetti ha la sua scuola coranica, la madrasa, dove appunto si studia quella che è considerata la lingua di Allah. Ogni traduzione del Corano, poi, è solo una rappresentazione imperfetta dei suoi contenuti, perché sin dalle origini per i seguaci di Maometto “tradurre è come tradire”.
Il legame di un popolo con la sua lingua, quindi, è strettissimo. Così stretto che per le potenze coloniali è il primo elemento da indebolire attraverso l’imposizione di una nuova lingua. Può accadere, però, che la nuova lingua non sostituisca del tutto la lingua di appartenenza del popolo sottomesso, e che di fatto questa sia semplicemente considerata una seconda lingua. Questa forma di resistenza la dice lunga sul significato identitario di una lingua, sul ruolo che essa riveste quando si tratta di definire la propria appartenenza sociale e culturale. Cosa di non poco conto, specialmente quando proprio attraverso le forme di riappropriazione della propria lingua si vuole combattere l’assoggettamento coloniale. E’ il caso della Corsica, dei corsi e del corso. Qui il processo di riappropriazione del corso si è spinto a tal punto da far diventare lo studio della lingua locale materia scolastica, e attraverso la lingua sono veicolate la storia, la cultura, le tradizioni, il canto e la musica e quant’altro va a definire la condizione del popolo corso. Diciamo che la nuova sensibilità linguistica più che al rifiuto della nuova lingua ci spinge al recupero di quella del posto. Non solo: le esigenze del mondo globalizzato ci spingono a conoscere più lingue, relativizzando così il peso della lingua imposta dalle forze colonizzatrici o dai regimi totalitari.
Veniamo alla Sardegna e ai sardi, ad Alghero e agli algheresi, a Carloforte e ai carlofortini. Qui si parlano lingue di peso, purtroppo si parlano sempre di meno, però si tratta di lingue che nonostante il continuo processo di italianizzazione non sono scomparse. Mi sembra un buon punto di partenza per impostare un programma di riappropriazione delle nostre lingue tradizionali, con tutto ciò che ne consegue in termini anche politici. Il che significa che prima di sentirci italiani siamo sardi, e tali rimaniamo anche quando parliamo in inglese o in spagnolo.
Le lingue del posto devono trovare spazio tra le materie curricolari della scuola, anzi con l’introduzione del sardo nelle scuole (o di altra lingua locale) si deve avviare il percorso di rivisitazione dei luoghi della storia, per reinterpretare gli avvenimenti dentro il nostro contesto identitario e culturale. È attraverso sa lingu che si compie il ritorno alle origini e si scoprono i valori di appartenenza che è giusto salvaguardare nel presente e nel futuro. Una politica che vuole riscattare i soprusi subiti dai sardi non può che ripartire dal ruolo fondamentale che bisogna riconoscere al nostro idioma. Il che significa che dovranno espandersi anche le possibilità di autogoverno dei sardi, secondo le prospettive di un federalismo maturo, che lega i popoli e le lingue del Mediterraneo e si apre alle prospettive della comunità europea. La riconquista della lingua, quindi, come possibilità per proporci come soggetti originali e indipendenti nel panorama internazionale, rifuggendo ogni forma di chiusura e isolazionista.
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