Lo Stato, i figli e i figliastri
Ovvero, un appello ai giovani sardi.
Tonio Mura |
Non sono io a scriverlo per primo, infatti quelli che mi hanno preceduto in questa breve ma sostanziale riflessione sono tanti, così tanti che sarebbe quasi impossibile citarli tutti.
Da almeno cinque secoli i sardi sono sudditi o cittadini di Regni o Stati che hanno negato la nostra storia, la nostra cultura e la nostra identità.
Questo elemento unisce i sardi a tutti i popoli, di ieri e di oggi, che subiscono un processo di inclusione basato su politiche che possiamo definire di tipo coloniale.
Significa che la nostra terra, pur essendo parte di un territorio chiamato nazione, subisce un trattamento differente rispetto ad altri territori e ha pagato e paga le conseguenze di questo declassamento.
Sul piano strettamente storico la dimostrazione di quanto scritto è fin troppo plausibile, tanto che il lettore a questo proposito potrebbe aggiornarsi con estrema facilità.
Voglio soffermarmi invece su alcuni aspetti dell’attualità che, in linea con la dimostrazione storica, ribadiscono ancora la nostra condizione di subalternità.
Per rendere più chiaro il pensiero parto da una domanda: sino a che punto i sardi possono costruire il loro futuro? Per rispondere richiamo il titolo della riflessione e il sistema coloniale di fare figli e figliastri.
Sono convinto che noi sardi più che figli siamo i figliastri, una condizione che in cinque secoli ha indebolito anche il nostro modo di sentirci comunità. A furia di dircelo (con le parole e con i fatti) che siamo figliastri, ci abbiamo anche creduto! E non è detto che questo senso di inferiorità non condizioni ancora il nostro modo di proporci. Ebbene, come figliastri ci è stata tolta la sovranità su tutto quello che ci apparteneva, a partire dalla terra, dalla lingua, dal lavoro.
La nostra Isola è stata violentata da una industrializzazione che oggi lascia a casa migliaia di disoccupati, e livelli di inquinamento che in qualsiasi altra parte d’Europa sarebbero considerati di estrema pericolosità.
Di quelle industrie oggi restano i ruderi, non parte la riconversione e tanto meno gli interventi di bonifica. Illusi di guadagni migliori i sardi-figliastri hanno abbandonato le campagne. Oggi vorrebbero ritornarci ma si paventa un altro pericolo: quello di non penetrare un mercato ormai globalizzato.
Mentre noi si oliava ingranaggi altri industrializzavano l’agricoltura, ampliavano le loro produzioni e invadevano i mercati con prodotti molto competitivi, compreso il mercato sardo. Pian piano hanno preso il largo anche le nostre banche, inglobate in sistemi finanziari più ampi e di respiro continentale, tanto che certi investimenti ormai non sono più alla nostra portata. La nostra terra, in Europa, è quella che paga il prezzo più alto alle servitù militari. Siamo stati, e forse lo siamo ancora, territorio nuclearizzato.
Ancora oggi i nostri giovani guardano all’esercito come opportunità di lavoro, quasi a dimostrare la dipendenza psicologica ed economica che deriva dall’occupazione militare.
Le stesse popolazioni che vivono nei territori occupati campano con quanto elargisce l’esercito, tanto che la servitù militare è considerata, paradossalmente, una importante risorsa economica. Poi c’è la burocrazia statale, il sistema tentacolare che sovrintende a tutto.
Una burocrazia che si rigenera, purtroppo, anche a livello regionale e locale. Si tratta del sistema che più di altri moltiplica i notabili e la classe impiegatizia di Stato, quello che crea le più ampie forme di complicità e di collaborazionismo, anche in virtù dei privilegi che lo Stato riconosce a tale personale.
Non vado oltre, anche se la scuola, i trasporti, il fisco, la giustizia e altro meriterebbero uguale attenzione. Ci si lamenta che i sardi non hanno il senso dello Stato.
Non è vero: i sardi sanno perfettamente cos’è lo Stato, ma soprattutto sono consapevoli dei tanti elementi di contraddizione che ne definiscono la loro condizione di figliastri. Quello che manca non è neppure la presa di coscienza collettiva di questa condizione, quanto l’incapacità di reagire politicamente, e in forme democratiche, al sistema di assoggettamento coloniale e servile.
Mancano, oltretutto, quei leader politici col carisma del servizio, pronti a spendersi veramente per la causa sarda, incuranti del canto delle sirene o delle seduzioni del potere. Ecco allora l’appello, rivolto soprattutto ai giovani sardi: studiate, riesaminate i luoghi della storia sarda, create una nuova intellighenzia nei vari ordini del sapere. Siate uomini liberi, cittadini di un’isola liberata dalle dipendenze inutili e nocive.
Figli della propria terra e non figliastri di una nazione matrigna.
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