Pinta la legna e portala in Sardegna
Ovvero: il nostro petrolio e quello del Qatar.
Antonio Budruni |
In attesa dello scontro sulle primarie del centrosinistra, battaglia anticipatrice della competizione elettorale per il rinnovo del Consiglio regionale nella prossima primavera, il clima politico sonnacchioso e feriale isolano si è scaldato con l’arrivo dei venti torridi del Quatar.
I giornali locali si sono subito avventati sulla preda – pardon: sui rutilanti petrodollari già avvistati al largo del Mar di Sardegna – come l’ennesima chimera in grado di risolvere i “gravi problemi della nostra amata (?) isola”.
Leggendo le cronache – soprattutto quelle della pagina algherese della Nuova Sardegna – mi è venuta in mente una bellissima canzone del nostro grande Pino Piras.
I giornali locali si sono subito avventati sulla preda – pardon: sui rutilanti petrodollari già avvistati al largo del Mar di Sardegna – come l’ennesima chimera in grado di risolvere i “gravi problemi della nostra amata (?) isola”.
Leggendo le cronache – soprattutto quelle della pagina algherese della Nuova Sardegna – mi è venuta in mente una bellissima canzone del nostro grande Pino Piras.
Quella nella quale si fa riferimento all’”isura del gòc” (l’isola della goduria) – i puristi mi perdoneranno se uso la grafia italiana – e la Sardegna è rappresentata come “una canarina aspiscittara”, pronta a dare piacere a chiunque arrivi da fuori.
Sino ad oggi, tutti gli investimenti esterni all’isola sono stati attuati prevalentemente per ottenere lauti profitti per gli imprenditori continentali e stranieri e poche briciole per i sardi. Basta elencare, senza un criterio cronologico, Moratti, Rovelli, Aga Khan, Eni ecc. per poter giudicare, a posteriori, i risultati delle avventure imprenditoriali esterne in terra sarda.
Quasi sempre, la politica regionale si è mostrata prona alle volontà dei potenti e danarosi imprenditori, senza porre condizioni. Si sa, naturalmente, che se sei povero e disperato, non puoi dettare condizioni a chi si presenta con il luccichio del denaro contante (o presunto tale).
E’ vero, non siamo più, come dice Enrico Daga, con l’anello al naso. Siamo tutti più consapevoli, più attenti, più responsabili. Tutti, tutti? Anche la nostra classe politica? Ecco, qui comincerei ad avere qualche dubbio. Non per essere prevenuto, ma perché conosco le dinamiche che, da sempre, guidano e dettano i comportamenti di quasi tutta la classe politica: avere merce di scambio per ottenere il consenso popolare che è quello che consente alla politica mediocre di conquistare rappresentanza e potere.
Gli investimenti stranieri non sono il male, sia ben chiaro. Il male, semmai, si è annidato sempre, nel passato, in coloro che, privi di un qualunque disegno di sviluppo fondato sulla valorizzazione delle risorse sarde, hanno svenduto territorio e risorse, come se si fosse tratto di “roba de giustissia”.
È chiaro che chi investe denari ha il diritto di ricavare profitti. Ma nessuno può andare a casa degli altri pretendendo di dettare le condizioni. Semmai, deve essere esattamente il contrario. Anzi, la cosa giusta sarebbe proporre un progetto di sviluppo e chiedere agli investitori stranieri di investire i loro soldi per la realizzazione del “nostro” progetto. Più il progetto sarà conveniente e più gli investitori aderiranno. Questa cosa, in inglese, si chiama ora crowdfunding (ricerca di finanziamenti in rete per la realizzazione dei propri progetti economici, ma anche scientifici e culturali). Ma questa strada sembra troppo difficile da percorrere in un’isola nella quale, in generale, la politica (ma anche buona parte dell’imprenditoria) ragiona sul presente, sul corto respiro delle iniziative e non ha il coraggio (o la capacità) di affrontare le grandi questioni di prospettiva. Un po’ come i commercianti in tempi di crisi: tutti fuori dall’uscio in attesa che arrivi il cliente. Ecco, la Sardegna è lì, fuori dall’uscio, in attesa che gli emiri del Qatar o i russi di Abramovich entrino nel negozio a proporre l’affare. Di solito, chi propone l’affare ha di mira il proprio.
Oggi, gli investitori privati vogliono mettere le mani sulla risorsa più importante che noi possediamo – quella che Enrico Daga ha definito il “nostro petrolio” – l’ambiente naturale. Che è, per definizione, un bene irriproducibile. Una volta distrutto, l’ambiente naturale non può più essere ricostruito. A molti, lo sappiamo, della distruzione della materia prima non importa un ficco secco. L’importante è realizzare l’affare subito e portare a casa i soldi: pochi o molti che siano. Alle nuove generazioni, invece, la sottrazione della risorsa più importante dell’isola importa – e deve importare – moltissimo, invece. È l’unica vera risorsa che noi possiamo lasciare loro in eredità, pena la condanna al sottosviluppo perenne a alla dipendenza.
Sino ad oggi, tutti gli investimenti esterni all’isola sono stati attuati prevalentemente per ottenere lauti profitti per gli imprenditori continentali e stranieri e poche briciole per i sardi. Basta elencare, senza un criterio cronologico, Moratti, Rovelli, Aga Khan, Eni ecc. per poter giudicare, a posteriori, i risultati delle avventure imprenditoriali esterne in terra sarda.
Quasi sempre, la politica regionale si è mostrata prona alle volontà dei potenti e danarosi imprenditori, senza porre condizioni. Si sa, naturalmente, che se sei povero e disperato, non puoi dettare condizioni a chi si presenta con il luccichio del denaro contante (o presunto tale).
E’ vero, non siamo più, come dice Enrico Daga, con l’anello al naso. Siamo tutti più consapevoli, più attenti, più responsabili. Tutti, tutti? Anche la nostra classe politica? Ecco, qui comincerei ad avere qualche dubbio. Non per essere prevenuto, ma perché conosco le dinamiche che, da sempre, guidano e dettano i comportamenti di quasi tutta la classe politica: avere merce di scambio per ottenere il consenso popolare che è quello che consente alla politica mediocre di conquistare rappresentanza e potere.
Gli investimenti stranieri non sono il male, sia ben chiaro. Il male, semmai, si è annidato sempre, nel passato, in coloro che, privi di un qualunque disegno di sviluppo fondato sulla valorizzazione delle risorse sarde, hanno svenduto territorio e risorse, come se si fosse tratto di “roba de giustissia”.
È chiaro che chi investe denari ha il diritto di ricavare profitti. Ma nessuno può andare a casa degli altri pretendendo di dettare le condizioni. Semmai, deve essere esattamente il contrario. Anzi, la cosa giusta sarebbe proporre un progetto di sviluppo e chiedere agli investitori stranieri di investire i loro soldi per la realizzazione del “nostro” progetto. Più il progetto sarà conveniente e più gli investitori aderiranno. Questa cosa, in inglese, si chiama ora crowdfunding (ricerca di finanziamenti in rete per la realizzazione dei propri progetti economici, ma anche scientifici e culturali). Ma questa strada sembra troppo difficile da percorrere in un’isola nella quale, in generale, la politica (ma anche buona parte dell’imprenditoria) ragiona sul presente, sul corto respiro delle iniziative e non ha il coraggio (o la capacità) di affrontare le grandi questioni di prospettiva. Un po’ come i commercianti in tempi di crisi: tutti fuori dall’uscio in attesa che arrivi il cliente. Ecco, la Sardegna è lì, fuori dall’uscio, in attesa che gli emiri del Qatar o i russi di Abramovich entrino nel negozio a proporre l’affare. Di solito, chi propone l’affare ha di mira il proprio.
Oggi, gli investitori privati vogliono mettere le mani sulla risorsa più importante che noi possediamo – quella che Enrico Daga ha definito il “nostro petrolio” – l’ambiente naturale. Che è, per definizione, un bene irriproducibile. Una volta distrutto, l’ambiente naturale non può più essere ricostruito. A molti, lo sappiamo, della distruzione della materia prima non importa un ficco secco. L’importante è realizzare l’affare subito e portare a casa i soldi: pochi o molti che siano. Alle nuove generazioni, invece, la sottrazione della risorsa più importante dell’isola importa – e deve importare – moltissimo, invece. È l’unica vera risorsa che noi possiamo lasciare loro in eredità, pena la condanna al sottosviluppo perenne a alla dipendenza.
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