Terra Sarda, terra ferita
Sul sentirsi figli della propria terra e come ripartire.
I fattori produttivi. Il legame dei sardi con la loro terra, però, si spinge al massimo sotto l’aspetto produttivo. Perché la terra per i nostri antenati era “madre”, le vene d’acqua il suo sangue, le pietre le immortali ossa. Dalla terra madre alle madri sarde il passo è breve, donne tenaci e forti, custodi della memoria e pazienti tessitrici di relazioni, protagoniste della società matriarcale.
Tonio Mura |
Parlare di quello che lega le persone alla propria terra d’origine è un’operazione molto complicata e rischiosa.
Infatti si può scadere nella facile retorica, si può cedere ad un sentimentalismo di maniera, non si riesce a reggere l’inevitabile confronto con i tanti che anche in versione romanzata o poetica si sono cimentati col tema, si può essere assolutamente banali.
Accetto la sfida e vado avanti, lasciando al lettore il giudizio finale, sia nel merito e sia nella sostanza.
C’è la terra dove siamo nati e dove sono nati i nostri genitori e progenitori, c’è la terra che abitiamo (che non sempre è quella delle nostre origini) e c’è, almeno nella visione più moderna del nostro esistere, che siamo cittadini del mondo, quindi abitanti della terra nel senso più largo.
C’è la terra dove siamo nati e dove sono nati i nostri genitori e progenitori, c’è la terra che abitiamo (che non sempre è quella delle nostre origini) e c’è, almeno nella visione più moderna del nostro esistere, che siamo cittadini del mondo, quindi abitanti della terra nel senso più largo.
Ci sono popoli che legano la terra alla loro appartenenza religiosa, per esempio gli ebrei e, in modo diverso, anche gli arabi. Ci sono popoli che conservano il ricordo della terra perduta e lottano per riconquistarla: palestinesi, curdi, indiani d’America, armeni, boscimani; elencarli tutti è quasi impossibile.
La stessa condizione di popolo è definita in rapporto a una terra, e il principio vale anche per i popoli senza terra, per esempio i Rom e le altre popolazioni nomadi.
Dentro questo ragionamento generale, in che misura è possibile collocarci i sardi e la nostra terra? Rispondere a questa domanda è fondamentale, in ragione del fatto che c’è una diversità e una originalità che ci appartengono, che sono nostre e non di altri.
Dentro questo ragionamento generale, in che misura è possibile collocarci i sardi e la nostra terra? Rispondere a questa domanda è fondamentale, in ragione del fatto che c’è una diversità e una originalità che ci appartengono, che sono nostre e non di altri.
La scrittrice Michela Murgia, candidata di ProgReS a governatrice della Regione Sardegna, ha parlato della terra come “giacimento” da cui ripartire, insieme ai sardi.
I fattori fisici. Per dimostrare quanto detto si può partire dai fattori fisici che distinguono la nostra terra: è un’isola, è terra di pietre e di lecci secolari, perlopiù soleggiata; alle coste battute dal mare contrappone i grandi spazi montani e silenziosi o afose pianure. E’ terra di vento e di alberi piegati dal vento, di sorgenti d’acqua fresca, di natura selvaggia e antica, di cielo azzurro e di bianche spiagge. E’ la terra del muflone, libero e diffidente, del grifone che vola alto spinto dalle correnti, del cinghiale che si nasconde tra cisto e ginestre spinose. E’ la terra dove la natura mostra i suoi mille volti e dove l’uomo è come sottomesso di fronte a questa forza arcana e misteriosa, ne subisce la tempra.
I fattori fisici. Per dimostrare quanto detto si può partire dai fattori fisici che distinguono la nostra terra: è un’isola, è terra di pietre e di lecci secolari, perlopiù soleggiata; alle coste battute dal mare contrappone i grandi spazi montani e silenziosi o afose pianure. E’ terra di vento e di alberi piegati dal vento, di sorgenti d’acqua fresca, di natura selvaggia e antica, di cielo azzurro e di bianche spiagge. E’ la terra del muflone, libero e diffidente, del grifone che vola alto spinto dalle correnti, del cinghiale che si nasconde tra cisto e ginestre spinose. E’ la terra dove la natura mostra i suoi mille volti e dove l’uomo è come sottomesso di fronte a questa forza arcana e misteriosa, ne subisce la tempra.
Nessuno di noi chiede di nascere, tanto meno dove nascere! Chi nasce sulla nostra isola, però, da subito è immerso nella sua immensa varietà di natura, e ne conosce il fascino e il condizionamento, la fragilità e la determinazione. E’ di queste ore la notizia di nuovi devastanti incendi, di quanto poco basti per rompere l’equilibrio uomo-natura, di come sia pericoloso perdere il valore della terra, prima di tutto per i sardi che la abitano!
I fattori culturali. Si può continuare facendo un accenno ai fattori culturali, alla millenaria storia che ci ha visti protagonisti nei grandi cambiamenti politici e di potere che hanno interessato l’area del mediterraneo. Anche noi abbiamo conosciuto la nostra epoca d’oro, innalzando nuraghi, costruendo monumentali tombe, commerciando con gli altri popoli del mare e competendo nell’arte della guerra.
I fattori culturali. Si può continuare facendo un accenno ai fattori culturali, alla millenaria storia che ci ha visti protagonisti nei grandi cambiamenti politici e di potere che hanno interessato l’area del mediterraneo. Anche noi abbiamo conosciuto la nostra epoca d’oro, innalzando nuraghi, costruendo monumentali tombe, commerciando con gli altri popoli del mare e competendo nell’arte della guerra.
Abbiamo costruito pozzi sacri, abbiamo innalzato menhir, scolpito statue, interpellato le stelle. Eravamo rispettati e ricercati, temuti e combattuti. Una civiltà che è durata 2.500 anni, fondata sulla tradizione orale, quindi sul valore della parola data. Un elemento, quest’ultimo, che anche oggi segna profondamente il nostro modo di relazionarci.
Anche quando abbiamo subito le imposizioni degli invasori abbiamo saputo ricavarne qualche indiscutibile vantaggio, per esempio la formazione della lingua. Questo implica un forte senso di comunità e di appartenenza, capace di grande elaborazione culturale. Oggi chi viene in Sardegna nota una terra trasformata dall’uomo, dove spiccano le torri nuragiche e altre costruzioni uniche nel genere, come testimonianza di una vicenda antica, frutto della grande inventiva e laboriosità degli indigeni isolani.
Per Mario Melis (sardista, ex presidente della giunta regionale):
”Non si può certo affermare che siamo un popolo senza storia, solo perché, salvo il periodo giudicale, la storia di Sardegna da 2000 anni a questa parte l’hanno scritta i suoi dominatori. La verità è che, spesso in contrasto e comunque sempre in atteggiamenti resistenziali con le istituzioni ufficiali, il popolo sardo ha continuato la sua operosa testimonianza salvaguardando tradizioni, usi, costumi, lingua, civiltà giuridica, conservando i valori della propria identità senza mai lasciarsi disperdere ed assorbire nella società e nella cultura dominante e cogliendo ogni occasione per tentare la riconquista della perduta libertà” (M. Melis, Discorsi, Stef, Cagliari 1989).
I fattori produttivi. Il legame dei sardi con la loro terra, però, si spinge al massimo sotto l’aspetto produttivo. Perché la terra per i nostri antenati era “madre”, le vene d’acqua il suo sangue, le pietre le immortali ossa. Dalla terra madre alle madri sarde il passo è breve, donne tenaci e forti, custodi della memoria e pazienti tessitrici di relazioni, protagoniste della società matriarcale.
Dalla terra viene la vita, e la terra è in grado di sostenerla e nutrirla. E’ la terra che ci ha fatto pastori, coltivatori di vigne e di grano, produttori di olio, raccoglitori di miele, di mirto e di corbezzolo. Una terra generosa ma esigente, da addomesticare con una dedizione totale, in un lavoro quotidiano fatto di fatica e anche di solitudine, di coraggio, di forza e di speranzosa attesa.
E quando la madre terra elargisce i suoi doni ecco che il nostro senso di comunità si trasforma nella festa conviviale, nella condivisione della tosatura, nel ritrovarsi per la vendemmia o per infornare il pane, per macellare il maiale e trasformarne la carne.
Ogni cosa si ripete nel tempo giusto e nel giusto modo, in un rituale che si è tramandato e si tramanda di padre in figlio, immutato perché vicino all’agire sacro. Ancora oggi nei nostri paesi si scambiano i dolci, agli amici si regala la bottiglia dell’olio o del vino, la ricotta fresca o la prima frutta, la carne del cinghiale imprigionato dal laccio. L’abbondanza non è tale se non è condivisa, il cibo non è buono se non viene scambiato, il vino non fa festa se è bevuto da soli! Lo esige il fatto che siamo figli della stessa madre terra, e a nessuno deve essere negata la bontà del suo latte! Quasi a ricordare quel tempo quando la terra era di chi la lavorava, quando c’era terra per tutti, nella forma più libera che si possa immaginare.
Dalla libertà alla tirannia. Per farla breve, diciamo che è andata così almeno sino a quando un Re estraneo alla nostra terra e ai nostri costumi non ha preteso le chiudende e le proprietà esclusive, sino a quando la fame di ferro e di armi dei governanti non ci hanno spinto nelle profondità delle miniere e a distruggere i nostri boschi, per dare legna all’altoforno, per sciogliere il minerale.
Da questo momento in poi dobbiamo parlare della nostra terra ferita, di padri e di figli obbligati a lasciare pascoli e orti per andare a morire in guerra, di altri figli che la fame ha spinto in altre terre. Ci si separa dalla madre, e la lontananza cambia sia chi parte e sia chi resta, come quando si muore, come quando il nostro sorriso è spento dal lutto. Questo era quando si andava a sparare sull’ “altopiano”, questo era quando si emigrava. Poi è arrivato il petrolio, l’oggetto estraneo alla nostra natura, la seduzione del lavoro moderno, facile e ben pagato, al riparo dal vento e dalla pioggia, dal freddo e dalla calura. Al petrolio abbiamo regalato coste e campi, porti e mari, come fossero beni nella nostra disponibilità.
Da questo momento in poi dobbiamo parlare della nostra terra ferita, di padri e di figli obbligati a lasciare pascoli e orti per andare a morire in guerra, di altri figli che la fame ha spinto in altre terre. Ci si separa dalla madre, e la lontananza cambia sia chi parte e sia chi resta, come quando si muore, come quando il nostro sorriso è spento dal lutto. Questo era quando si andava a sparare sull’ “altopiano”, questo era quando si emigrava. Poi è arrivato il petrolio, l’oggetto estraneo alla nostra natura, la seduzione del lavoro moderno, facile e ben pagato, al riparo dal vento e dalla pioggia, dal freddo e dalla calura. Al petrolio abbiamo regalato coste e campi, porti e mari, come fossero beni nella nostra disponibilità.
Una violenza inaudita si è riversata sulla terra, veleni catramosi hanno macchiato le spiagge e la superficie dei mari, la nostra aria e i nostri polmoni. Non più odori di lentischio e di rosmarino ma fumo untuoso e riluttante. Non più feste campestri in onore del santo ma preghiere per piangere gli operai sardi morti di cancro.
La tragedia è stata coperta con l’elemosina di qualche migliaio di stipendi, mentre la vera ricchezza del petrolio era chiusa in casseforti lontanissime dalla nostra terra.
Abbiamo aperto gli occhi quando il sogno industriale dell’isola era finito o fallito, e adesso si piange sulle macerie e sulle nuove povertà. Una lezione dura, troppo dura per non pensare a una trasformazione profonda del sentirsi sardi, della nostra coscienza. Da una parte offesa per le ferite causate alla nostra terra, dall’altra contrita per i tanti rimorsi, per aver ceduto all’inganno straniero.
Ma gli esempi, sia chiaro, possono essere anche altri, e non è detto che ancora oggi sulla nostra terra non si stia speculando. Qua e là si vedono pale eoliche enormi che cambiano il profilo dei monti, fissate in plinti di tonnellate di cemento. Strumenti costruiti altrove e che non ci appartengono, gestiti da società straniere che lucrano sul nostro vento.
Ma gli esempi, sia chiaro, possono essere anche altri, e non è detto che ancora oggi sulla nostra terra non si stia speculando. Qua e là si vedono pale eoliche enormi che cambiano il profilo dei monti, fissate in plinti di tonnellate di cemento. Strumenti costruiti altrove e che non ci appartengono, gestiti da società straniere che lucrano sul nostro vento.
Succede che mentre la Toscana smantella i pannelli solari perché inutili e antiestetici, considerandoli oltretutto tecnologia obsoleta e superata, da noi si invadono migliaia di ettari di terra di ferro, di specchi e di cemento, per incamerare l’energia del nostro sole e venderla fuori dalla Sardegna. Per noi nessun guadagno, neppure quell’energia a basso costo che potrebbe invogliare nuovi investimenti.
Poi c’è la terra prestata alla guerra e ai giochi di guerra, una servitù che con i sommergibili ha portato il nucleare in Sardegna, col suo terribile e infinito potenziale di morte. La terra colpita dalle nuove bombe, le micro-polveri assassine che infettano soldati e animali, pastori e bambini.
Ritornare alla terra. Chiediamocelo perché tutto questo si è potuto verificare? Chiediamoci cosa ha spento la nostra coscienza, l’orgoglio di essere figli di una terra bellissima? Rispondiamo però senza nasconderci dietro a un dito, riconoscendo che abbiamo tradito la nostra stessa natura di sardi.
Ritornare alla terra. Chiediamocelo perché tutto questo si è potuto verificare? Chiediamoci cosa ha spento la nostra coscienza, l’orgoglio di essere figli di una terra bellissima? Rispondiamo però senza nasconderci dietro a un dito, riconoscendo che abbiamo tradito la nostra stessa natura di sardi.
Rispondiamo senza per questo cancellare il mito della terra in nome di una modernità che ci vuole cittadini del mondo. Anche nel mondo globalizzato non siamo tutti uguali, non parliamo tutti la stessa lingua, non ci vestiamo con gli stessi abiti e non mangiamo lo stesso cibo.
E’ proprio la globalizzazione, anzi, che riconosce ed esalta le diversità! Oggi ai sardi è chiesto di ritornare alla terra, di riscoprire questo antico legame. E’ chiesto di trasformare questi sentimenti in scelte politiche, in azioni volte a promuovere il bene sociale, cioè un bene ricercato non per poche e selezionate persone.
Siamo poco più di un milione e mezzo di sardi residenti, abitiamo una terra con uno dei più bassi indici demografici d’Europa e del Mediterraneo, potenzialmente la nostra terra è in grado di darci l’autosufficienza alimentare ed energetica; nonostante lo sfruttamento coloniale e l’occupazione militare siamo riusciti a conservare le nostre bellezze naturalistiche e paesaggi mozzafiato, qualcosa di unico nel panorama dell’industria turistica più sensibile alla conservazione delle ricchezze ambientali.
Dobbiamo costruire il futuro dei nostri figli legandolo nuovamente alla terra e ai suoi significati antropologici e culturali. Il rispetto della terra è la premessa insostituibile, che ci porta al rispetto dei suoi abitanti tutti, è il viatico per la pace dei popoli. Questo avrà un valore anche quando i nostri giovani sardi, si spera per scelta e non per necessità, varcheranno il mare per cercare migliore fortuna in continente.
Perché l’educazione ricevuta in casa non si dimentica, è un tratto specifico della nostra personalità, perché anche la terra, detto metaforicamente, distribuisce i suoi geni. E c’è una parola che lega tutto il discorso fin qui srotolato: autodeterminazione! Che significa: padroni in casa propria, meris in domu nosta!
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