Sulle politiche linguistiche ad Alghero
Perché ad Alghero, dopo 60 anni di "renaixencia" nessuno ha ancora avuto l'idea che ad Ollolai hanno maturato in una settimana?
Ma una lingua per definizione scientifica non è uno standard insegnato a scuola ma un sistema di comunicazione convenzionale orale, che può essere scritto o meno.
Vediamo ora a sommi capi la realtà (socio)linguistica algherese:
a) abbiamo una lingua storica orale (l'uso scritto si è interrotto agli inizi dell'ottocento) in situazione di dilalia (e non certo di diglossia, come è di moda sproloquiare di questi tempi) parlata da circa 2000 persone tra cui alcuni minori, ciò significa che tecnicamente la trasmissione intergenerazionale non è terminata;
b) Abbiamo diversi tentativi di normativizzazione della variante orale; l'ultimo (Scala 2003), quello più condiviso, approvato dall'IEC ma non esente da critiche, è stato pensato apposta per l'insegnamento;
c) non abbiamo l'insegnamento istituzionalizzato, quindi anche i dati relativi ai risultati dell'utilizzo dello standard di cui sopra son purtroppo molto scarsi.
Ora, secondo il ragionamento di Balata, siccome abbiamo uno standard che però non viene insegnato a scuola non dovremmo avere la possibilità di continuare la lingua. Che però, guarda caso, continua ad essere parlata e sporadicamente trasmessa ai figli senza la scuola e tantomeno uno standard scritto.
L'idea che una lingua non può esistere senza una scrittura è un'idea dura a morire nella "linguistica popolare" (folklinguistic) e nelle politiche di tutela delle lingue minoritarie che ad essa (di solito nei fatti più che nelle dichiarazioni programmatiche) si ispirano.
Seguendo questa convinzione, di cui l'assioma in questione è la prova della vitalità, perlomeno ad Alghero, per anni si è bisticciato su come è meglio scrivere l'algherese per poi dopo poterlo insegnare nella scuola (senza che ancora ci si sia arrivati) e si son persi e si stanno perdendo anni preziosissimi in cui si sarebbe potuta rivitalizzare la variante storica parlata in città dandogli valore ufficiale e promuovendo e incentivando l'uso sociale e la trasmissione intergenerazionale. Invece da noi i "normalizzatori", gli operatori linguistici e gli "intellettuali" sembrano dei medici che di fronte ad una gamba rotta si azzuffano per decidere come fare al meglio la fisioterapia prima però di aver applicato un gesso.
Nel resto della Sardegna invece perlomeno ci provano, e il fatto che Riccardo Laconi abbia usato il sardo che parla a casa per parlare di bioedilizia è la confutazione in carne e ossa e voce di chi continua a sostenere che una variante orale "così com'è" (leggi: senza scrittura standard) non è adatta ad esprimere concetti "alti" ma solo a parlare di pecore e, nel caso dell'algherese, di pesci. Portando avanti di fatto, magari all'interno stesso dell' ambito della "promozione/difesa della lingua", i classici stereotipi e valutazioni negative che hanno accompagnato la triste storia delle lingue minoritarie/minorizzate.
E una domanda sorge spontanea: perché ad Alghero, dopo 60 anni di "renaixencia" nessuno ha ancora avuto l'idea che ad Ollolai hanno maturato in una settimana? Perché manca un censimento e un riconoscimento dell'importanza dei parlanti naturali, soprattutto minori, base imprescindibile per qualsiasi discorso di tutela/rivitalizzazione?
La risposta è semplice e drammatica: dal momento della "riscoperta" di fine ottocento fino ai giorni nostri l'algherese parlato non piace ai puristi, algheresi o catalani che siano (ma di più ai primi, 'catalanisti' e in odio verso il sardo "corruttore" (sic!) della purezza primigenia del catalano di Alghero, afflitti da un senso provinciale di "vergogna" e inferiorità di cui parleremo sotto): il problema è tutto qui.
Giovanni Fiori |
Un paio di mesi fa, in concomitanza col periodo degli esami scolastici, sono apparse sui quotidiani e sui social network due notizie, una bella e una brutta, che hanno fatto scalpore: la bella (e prima in ordine di tempo) è che un ragazzo di Cagliari, Riccardo Laconi, ha sostenuto l'esame di terza media in "sadru" (sardu) ottenendo un ottimo risultato sia didatticamente che, soprattutto, mediaticamente.
La brutta è che una ragazza ogliastrina ha cercato di fare la stessa cosa di Riccardo ma la presidente di commissione, "continentale", le ha negato questa possibilità adducendo problemi (sicuramente reali ma superabilissimi) di comprensione del sardo.
Ispirata da queste due vicende complementari pochi giorni dopo una associazione culturale di Ollolai ha istituito un premio per i bambini che parlano in sardo, cioè per i parlanti naturali della varietà locale in età scolare.
Ollolai su menzus. (Ollolai regna).
Nasce spontaneo, almeno per me, fare un paragone con la situazione algherese e con le "politiche linguistiche" portate avanti in città ormai da cinquant'anni.
Parto da un assioma trovato nel blog di Gavino Balata (al quale faccio i complimenti per il suo algherese parlato in via di miglioramento:
Ispirata da queste due vicende complementari pochi giorni dopo una associazione culturale di Ollolai ha istituito un premio per i bambini che parlano in sardo, cioè per i parlanti naturali della varietà locale in età scolare.
Ollolai su menzus. (Ollolai regna).
Nasce spontaneo, almeno per me, fare un paragone con la situazione algherese e con le "politiche linguistiche" portate avanti in città ormai da cinquant'anni.
Parto da un assioma trovato nel blog di Gavino Balata (al quale faccio i complimenti per il suo algherese parlato in via di miglioramento:
"lo que és menester al diure" ho imparato fin da piccolo) "Paella i margallo', experiment de contaminaciò català alguerés", nell'articolo "La llengua del bressol",
assioma che ben rappresenta l'episteme imperante ad Alghero nelle questioni linguistiche.
Nell'articolo, scritto in inglese, tra le altre cose Balata pronuncia questa sentenza:
Nell'articolo, scritto in inglese, tra le altre cose Balata pronuncia questa sentenza:
"no standard, no school, no alguerés".Vediamo di soffermarci su questa triplice equivalenza. L'idea stessa di scuola, per avere senso, ha bisogno di un oggetto di insegnamento, cioè di una materia, e di una qualche forma di comunicazione, che è il mezzo di insegnamento; secondo il ragionamento di Balata se senza standard non ci può essere scuola allora è vero anche che lo standard è o l'oggetto o il mezzo dell'insegnamento nella scuola o entrambe le cose. Il terzo elemento dell'assioma definisce a rigor di logica la lingua come uno standard che viene insegnato o utilizzato a scuola.
Ma una lingua per definizione scientifica non è uno standard insegnato a scuola ma un sistema di comunicazione convenzionale orale, che può essere scritto o meno.
Vediamo ora a sommi capi la realtà (socio)linguistica algherese:
a) abbiamo una lingua storica orale (l'uso scritto si è interrotto agli inizi dell'ottocento) in situazione di dilalia (e non certo di diglossia, come è di moda sproloquiare di questi tempi) parlata da circa 2000 persone tra cui alcuni minori, ciò significa che tecnicamente la trasmissione intergenerazionale non è terminata;
b) Abbiamo diversi tentativi di normativizzazione della variante orale; l'ultimo (Scala 2003), quello più condiviso, approvato dall'IEC ma non esente da critiche, è stato pensato apposta per l'insegnamento;
c) non abbiamo l'insegnamento istituzionalizzato, quindi anche i dati relativi ai risultati dell'utilizzo dello standard di cui sopra son purtroppo molto scarsi.
Ora, secondo il ragionamento di Balata, siccome abbiamo uno standard che però non viene insegnato a scuola non dovremmo avere la possibilità di continuare la lingua. Che però, guarda caso, continua ad essere parlata e sporadicamente trasmessa ai figli senza la scuola e tantomeno uno standard scritto.
L'idea che una lingua non può esistere senza una scrittura è un'idea dura a morire nella "linguistica popolare" (folklinguistic) e nelle politiche di tutela delle lingue minoritarie che ad essa (di solito nei fatti più che nelle dichiarazioni programmatiche) si ispirano.
Seguendo questa convinzione, di cui l'assioma in questione è la prova della vitalità, perlomeno ad Alghero, per anni si è bisticciato su come è meglio scrivere l'algherese per poi dopo poterlo insegnare nella scuola (senza che ancora ci si sia arrivati) e si son persi e si stanno perdendo anni preziosissimi in cui si sarebbe potuta rivitalizzare la variante storica parlata in città dandogli valore ufficiale e promuovendo e incentivando l'uso sociale e la trasmissione intergenerazionale. Invece da noi i "normalizzatori", gli operatori linguistici e gli "intellettuali" sembrano dei medici che di fronte ad una gamba rotta si azzuffano per decidere come fare al meglio la fisioterapia prima però di aver applicato un gesso.
Nel resto della Sardegna invece perlomeno ci provano, e il fatto che Riccardo Laconi abbia usato il sardo che parla a casa per parlare di bioedilizia è la confutazione in carne e ossa e voce di chi continua a sostenere che una variante orale "così com'è" (leggi: senza scrittura standard) non è adatta ad esprimere concetti "alti" ma solo a parlare di pecore e, nel caso dell'algherese, di pesci. Portando avanti di fatto, magari all'interno stesso dell' ambito della "promozione/difesa della lingua", i classici stereotipi e valutazioni negative che hanno accompagnato la triste storia delle lingue minoritarie/minorizzate.
E una domanda sorge spontanea: perché ad Alghero, dopo 60 anni di "renaixencia" nessuno ha ancora avuto l'idea che ad Ollolai hanno maturato in una settimana? Perché manca un censimento e un riconoscimento dell'importanza dei parlanti naturali, soprattutto minori, base imprescindibile per qualsiasi discorso di tutela/rivitalizzazione?
La risposta è semplice e drammatica: dal momento della "riscoperta" di fine ottocento fino ai giorni nostri l'algherese parlato non piace ai puristi, algheresi o catalani che siano (ma di più ai primi, 'catalanisti' e in odio verso il sardo "corruttore" (sic!) della purezza primigenia del catalano di Alghero, afflitti da un senso provinciale di "vergogna" e inferiorità di cui parleremo sotto): il problema è tutto qui.
Il catalano storico di Alghero, la lingua di Pino Piras e Pasqual Gallo, dei miei e di tanti altri genitori e nonni è tuttora vittima di innumerevoli pregiudizi e valutazioni negative, in parte le stesse che hanno relegato gli idiomi italiani allo stato di dialetti in condizione di dilalia, in parte peculiari dell'algherese e conseguenti al continuo raffronto con lo standard del catalano assurto a modello di prestigio, che ha fatto si che l'algherese sia accettato "con riserva", riserva che può essere sciolta solo con uno standard scritto più vicino possibile a quello catalano.
Cosa ancor più grave e a mio avviso inaccettabile è che molti di questi giudizi negativi vengano dagli "intellettuali" se non addirittura da chi ricopre ruoli istituzionali nella politica di tutela linguistica.
Ed è per questo e in questi termini che propongo di rovesciare l'assioma di Balata:
1) l'oggetto della tutela/rivitalizzazione deve essere la variante orale perché è essa, e non un qualsivoglia standard, l'oggetto naturale della trasmissione intergenerazionale e quindi il mezzo per la sopravvivenza della lingua, perché che piaccia o no prima si impara a parlare poi, nel caso, a leggere e a scrivere; una lingua scritta ma non parlata è per definizione una lingua morta e/o artificiale;
2) La variante orale può essere da subito:
a) usata a livello ufficiale (uffici comunali, esami scolastici);
b) insegnata a scuola.
Un eventuale standard dovrebbe essere una conseguenza e dovrebbe partire dall'esame attento dei dati sulla sperimentazione dell'insegnamento della variante orale.
Ma anche la questione dell'insegnamento scolastico non può essere presa con leggerezza. Mettiamo pure che ci sia una legge che dia il via all'insegnamento: sorgerebbero una miriade di problemi all'atto pratico (perché è relativamente facile parlare di progettazione, molto piú difficile operare nel concreto). Riporto alcune considerazioni di Roberto Bolognesi sull'ipotesi di insegnamento del sardo a scuola, applicabili anche all'algherese.
Ed è per questo e in questi termini che propongo di rovesciare l'assioma di Balata:
1) l'oggetto della tutela/rivitalizzazione deve essere la variante orale perché è essa, e non un qualsivoglia standard, l'oggetto naturale della trasmissione intergenerazionale e quindi il mezzo per la sopravvivenza della lingua, perché che piaccia o no prima si impara a parlare poi, nel caso, a leggere e a scrivere; una lingua scritta ma non parlata è per definizione una lingua morta e/o artificiale;
2) La variante orale può essere da subito:
a) usata a livello ufficiale (uffici comunali, esami scolastici);
b) insegnata a scuola.
Un eventuale standard dovrebbe essere una conseguenza e dovrebbe partire dall'esame attento dei dati sulla sperimentazione dell'insegnamento della variante orale.
Ma anche la questione dell'insegnamento scolastico non può essere presa con leggerezza. Mettiamo pure che ci sia una legge che dia il via all'insegnamento: sorgerebbero una miriade di problemi all'atto pratico (perché è relativamente facile parlare di progettazione, molto piú difficile operare nel concreto). Riporto alcune considerazioni di Roberto Bolognesi sull'ipotesi di insegnamento del sardo a scuola, applicabili anche all'algherese.
Dice il fonologo sul suo blog:
"Una famiglia su quattro ha scelto l’insegnamento del sardo per i suoi ragazzi [quanti ad Alghero lo farebbero?]: è praticamente un miracolo. Ma adesso occorre un altro miracolo: quello che devono compiere gli insegnanti. Dovranno inventarsi il materiale didattico, partendo praticamente da zero. Le grammatiche di consultazione esistenti sono poche e elaborate seguendo criteri didattici decrepiti. Non esistono antologie di letteratura sarda. Non esiste una grammatica contrastiva, per permettere ai ragazzi di distinguere le strutture del sardo da quelle dell’italiano regionale [e del catalano, nel caso dell'algherese]. Non esistono ricerche che stabiliscano quale sia il livello di competenza del sardo dei ragazzi. Naturalmente non esistono neppure ricerche per stabilire quanto l’italiano dei ragazzi sia frammisto al sardo [all'italiano regionale sardo nel caso di Alghero]. Questo significa che gli insegnanti dovranno stabilire da soli, caso per caso, se insegnare il sardo come L1 (eventualmente da correggere) o come L2 (da imparare del tutto o quasi) e, naturalmente, dovranno inventarsi l’approccio più adeguato. Non so quale sia il livello di preparazione degli insegnanti che hanno seguito i corsi FILS organizzati dall’università di Cagliari, anzi sarebbe molto utile se qualcuno che ha seguito i corsi volesse raccontare della sua esperienza.[Per l'algherese non mi risulta ci siano stati dei corsi di formazione degli insegnanti]. So per certo che non hanno seguito corsi di fonologia. Mi chiedo allora come faranno a spiegare ai ragazzi il rapporto fra il sardo scritto e le varie pronunce locali, visto che è impensabile che si adottino altre pronunce [neretto mio: ad Alghero si stravolgono anche la morfologia e la sintassi]. I nostri poveri insegnanti dovranno improvvisare praticamente tutto."Non sono contrario a priori all'elaborazione di uno standard, ma mentre (quasi) tutti lo vedono come la condicio sine qua non dell'esistenza e sopravvivenza di una lingua, per me è uno strumento utilissimo per una lingua vitale, assolutamente secondario per una lingua in via di estinzione come l'algherese che ha bisogno di interventi ben diversi e smaliziati e moderni delle grammatichette ottocentesche e dei maestri pedanti che insegnano a mettere bene gli accenti.
Ma manca soprattutto il riconoscimento del valore intrinseco e assoluto, "senza se e senza ma" del dialetto algherese così come si è evoluto naturalmente, cioè come ce lo hanno tramandato i nostri genitori e nonni. Che lo hanno fatto nei modi e nelle forme migliori possibili, checché ne dicano i modaioli d'ogni epoca e provenienza.
Giovanni Fiori è studente di glottologia all'Università di Cagliari, parlante naturale di algherese
Giovanni Fiori è studente di glottologia all'Università di Cagliari, parlante naturale di algherese
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