Guardiamo i nostri armadi: siamo tutti colpevoli
Tutti abbiamo addosso il sangue dei cinesi morti a Prato.
Emiliano Di Nolfo |
Guardo le immagini della strage di Prato, e sono sempre più sconvolto.
Sono seduto nel salotto di casa mia e indosso: un paio di sneakers Tiger, calzini comprati all’Oviesse, un jeans Levi’s, mutande Intimissimi, canottiera nera H & M (comprata a Londra), una maglia a maniche lunghe Benetton e un maglione di Zara. Tra un po’ mi spoglierò e metterò un piagiama Tezenis.
Possono cambiare un po’ le marche, ma voi che mi leggete siete più o meno vestiti come me. Ebbene, abbiamo addosso tutti quanti, tutti colpevoli, il sangue dei cinesi morti a Prato.
Non basta, visto che in questo paese ci si accorge del problema solo quando la gente muore: anche se non macchiati di sangue ho addosso prodotti fatti da gente pagata un euro l’ora che vive in stato di semi schiavitù.
Non basta, visto che in questo paese ci si accorge del problema solo quando la gente muore: anche se non macchiati di sangue ho addosso prodotti fatti da gente pagata un euro l’ora che vive in stato di semi schiavitù.
Cioè: gente che cuce per 18-20 ore al giorno in un capannone buio, poi sviene qualche ora in un materasso lercio, ogni tanto mangia, piscia e si lava. E ogni tanto muore, bruciato come i topi. Però io sono fiero della mia nuova maglietta nera con il simbolo dei Ramones, se sono io, o della mia nuova maglietta di marca, se sono un elettore di Renzi. Cambia poco, l’hanno fatta sempre loro, i cinesi. Già, i cinesi, quelli cattivi, quelli che ci rubano il lavoro, quelli che se hanno la fortuna e non sono schiavi aprono negozi, quelli che se aprono i negozi sono pericolosi. I cinesi, quelli che cuciono. I cinesi, quelli che muoiono.
C’è una vulgata, un leit-motiv che sentiamo sempre: l’Italia deve ripartire dalle sue eccellenze, e le eccellenze sono sempre due: il cibo e il tessile. La moda, il made in Italy. Ora, nelle fasce più avvedute della popolazione si è diffusa ormai da anni una importante consapevolezza sull’alimentazione. Ci sono voluti anni, e ci siamo dovuti pure sorbire i guru come Carlin Petrini. Fatto sta che se uno vuole può mangiare buono, pulito e giusto.
Un esempio semplice: il piatto nazionale dell’Italia è la pasta al pomodoro. I pomodori li raccolgono i senegalesi in stato di semischiavitù gestiti dalla mafia in una situazione feudale di caporalato? Mi informo, lo imparo e metto rimedio. Botteghe equo e solidali, produttori a chilometro zero, pastifici artigianali, marche affidabili che si trovano al supermercato. In qualche modo ne esco. Mangio bene, magari spendo un po’ di più, ma sono sicuro che quel gesto che compio tre volte al giorno, nutrirmi, non è costato lo sfruttamento di nessuno. Conosco un sacco di gente che vive così, e sono testimone di una crescita esponenziale di questo approccio al cibo. E’ un approccio morale, e poi anche politico. Tra i tanti slogan giusti di Genova 2001 (ah, quanto avevamo ragione…), questa è una roba che ha funzionato. E non conosce crisi. E’ un trend in crescita anche ora. Perché chi sa, chi si informa, non può non agire di conseguenza. Anche se si tratta di spendere un po’ di più.
Un fenomeno analogo per l’abbigliamento non è, tecnicamente, possibile. Non c’è stato un movimento, un guru (un Carlin Petrini) per il tessile italiano. Non è possibile il paragone. O forse si. Stiamo parlando di un settore importantissimo della nostra economia, storicamente. Esattamente come l’agroalimentare. Però nel tessile siamo all’anno zero.
Tutti i giorni mangiamo. E tutti i giorni ci vestiamo. E ci mettiamo addosso indumenti, belli, brutti, colorati, grigi, con la marca o senza marca. Dalle mutande alla sciarpa, però, non sappiamo come sono prodotti. Sappiamo dove, e fino a ieri pensavamo che una scritta “made in Italy” fosse una garanzia. Fatto in Italia. Uno si aspetta sartine anche sexy, che lavorano in fabbriche illuminate, ben contrattualizzate, con i contributi e tutto, che ci confezionano le magliette fighe con cui uscire e fare i fighi la sera. Beh, la parte vera di questa roba è solo il fatto che usciamo la sera a fare i fighi. La mia maglietta con il marchio dei Ramones e quella dell’elettore di Renzi con il logo che vi pare l’hanno fatta nello stesso laboratorio. Forse a Prato. Forse i cinesi. Forse i cinesi che muoiono.
In tutto questo, mentre nell’agroalimentare in Italia c’è una coscienza che cresce, nel tessile c’è il silenzio e l’omertà. Uno come me, che prova a fare il consumatore avveduto, che crede che la politica si faccia ogni giorno facendo la spesa, cosa deve fare? Non ha alternative. Scrivo di fronte a questo computer vestito di cotone (e poliestere, e lana…) che so che gronda sangue e fatica. E come me, tutti quelli che mi stanno leggendo. Tutti colpevoli. C’è un pezzo dei morti di Prato addosso ad ognuno di noi.
Serve un Carlin Petrini del tessile. Serve uno che si alzi e dica: bello, elegante e giusto. Facciamo dei vestiti alla portata di tutti, per tutti i gusti e garantiamo che per realizzarli non è stato sfruttato nessuno. Un bel marchio qualità che dice: quelli che hanno realizzato questa maglietta sono stati pagati il giusto, hanno lavorato in condizioni dignitose e non sono stati sfruttati. E’ difficile? Secondo me no. E’ facile, giusto, e redditizio.
C’è una vulgata, un leit-motiv che sentiamo sempre: l’Italia deve ripartire dalle sue eccellenze, e le eccellenze sono sempre due: il cibo e il tessile. La moda, il made in Italy. Ora, nelle fasce più avvedute della popolazione si è diffusa ormai da anni una importante consapevolezza sull’alimentazione. Ci sono voluti anni, e ci siamo dovuti pure sorbire i guru come Carlin Petrini. Fatto sta che se uno vuole può mangiare buono, pulito e giusto.
Un esempio semplice: il piatto nazionale dell’Italia è la pasta al pomodoro. I pomodori li raccolgono i senegalesi in stato di semischiavitù gestiti dalla mafia in una situazione feudale di caporalato? Mi informo, lo imparo e metto rimedio. Botteghe equo e solidali, produttori a chilometro zero, pastifici artigianali, marche affidabili che si trovano al supermercato. In qualche modo ne esco. Mangio bene, magari spendo un po’ di più, ma sono sicuro che quel gesto che compio tre volte al giorno, nutrirmi, non è costato lo sfruttamento di nessuno. Conosco un sacco di gente che vive così, e sono testimone di una crescita esponenziale di questo approccio al cibo. E’ un approccio morale, e poi anche politico. Tra i tanti slogan giusti di Genova 2001 (ah, quanto avevamo ragione…), questa è una roba che ha funzionato. E non conosce crisi. E’ un trend in crescita anche ora. Perché chi sa, chi si informa, non può non agire di conseguenza. Anche se si tratta di spendere un po’ di più.
Un fenomeno analogo per l’abbigliamento non è, tecnicamente, possibile. Non c’è stato un movimento, un guru (un Carlin Petrini) per il tessile italiano. Non è possibile il paragone. O forse si. Stiamo parlando di un settore importantissimo della nostra economia, storicamente. Esattamente come l’agroalimentare. Però nel tessile siamo all’anno zero.
Tutti i giorni mangiamo. E tutti i giorni ci vestiamo. E ci mettiamo addosso indumenti, belli, brutti, colorati, grigi, con la marca o senza marca. Dalle mutande alla sciarpa, però, non sappiamo come sono prodotti. Sappiamo dove, e fino a ieri pensavamo che una scritta “made in Italy” fosse una garanzia. Fatto in Italia. Uno si aspetta sartine anche sexy, che lavorano in fabbriche illuminate, ben contrattualizzate, con i contributi e tutto, che ci confezionano le magliette fighe con cui uscire e fare i fighi la sera. Beh, la parte vera di questa roba è solo il fatto che usciamo la sera a fare i fighi. La mia maglietta con il marchio dei Ramones e quella dell’elettore di Renzi con il logo che vi pare l’hanno fatta nello stesso laboratorio. Forse a Prato. Forse i cinesi. Forse i cinesi che muoiono.
In tutto questo, mentre nell’agroalimentare in Italia c’è una coscienza che cresce, nel tessile c’è il silenzio e l’omertà. Uno come me, che prova a fare il consumatore avveduto, che crede che la politica si faccia ogni giorno facendo la spesa, cosa deve fare? Non ha alternative. Scrivo di fronte a questo computer vestito di cotone (e poliestere, e lana…) che so che gronda sangue e fatica. E come me, tutti quelli che mi stanno leggendo. Tutti colpevoli. C’è un pezzo dei morti di Prato addosso ad ognuno di noi.
Serve un Carlin Petrini del tessile. Serve uno che si alzi e dica: bello, elegante e giusto. Facciamo dei vestiti alla portata di tutti, per tutti i gusti e garantiamo che per realizzarli non è stato sfruttato nessuno. Un bel marchio qualità che dice: quelli che hanno realizzato questa maglietta sono stati pagati il giusto, hanno lavorato in condizioni dignitose e non sono stati sfruttati. E’ difficile? Secondo me no. E’ facile, giusto, e redditizio.
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