I giovani sardi e la voglia di riscatto
La scuola di oggi sradica dal territorio, censura la cultura del posto, impone la lingua italiana e non crea identità.
Tonio Mura |
Quando i miei alunni arrivano in quinta sento la necessità di passare ad essi qualcosa che rimanga, che rimanga nel tempo, al di là della mia disciplina e dei miei interessi personali.
Da persona adulta vorrei che potessero percepire lo stesso sentimento che in gioventù mi ha spinto a sopportare tante prove e tanti sacrifici, a controllare la ribellione che covava dentro di me e che più di una volta è scoppiata in gesti che oggi non consiglio a nessuno.
Parto da una domanda: secondo voi qual è la legge che ci fa andare avanti, che ci fa costruire il benessere per noi stessi e per gli altri, che rende grande un paese?
Non sto qui a riferire le tante risposte che ricevo, che io mi guardo bene dal giudicare. Posso dire però che nessuna risposta, per quanto intelligente, si avvicina a quello che io vorrei far scoprire loro.
Non ne faccio un dramma, anzi mi diverto a farli pensare, li invito a cercare tra le cose semplici, nella saggezza di una volta. Poi, quando percepisco la resa, do soddisfazione alla loro inevitabile curiosità. Naturalmente non cito mai la fonte, che nella fattispecie dovrebbe essere mio padre, che filosofo non era e neppure poeta! La legge che rende grande un paese è questa: che di generazione in generazione i figli possano fare un mestiere migliore di quello dei loro genitori!
Per me questo compito non è stato facile (e non solo per me) ma non posso negare che la mia famiglia, pur nelle ristrettezze di una volta, abbia fatto di tutto per farmi arrivare all’obiettivo. Devo anche ringraziare qualche altra persona adulta che ha creduto in me. Eppure neanche io sono un filosofo, e neppure un poeta, tantomeno uno scienziato.
Ricordo però l’orgoglio di mio padre quando gli dissi che volevo continuare a studiare dopo il diploma, pur sapendo che quegli studi li dovevo pagare col mio lavoro! Sono sicuro che in quel momento egli ha visto realizzarsi il suo desiderio: fare in modo che il figlio potesse fare un lavoro migliore del suo. Poi col tempo ho imparato anche altro: che non esistono lavori migliori, che ogni lavoro ha una sua importanza, e che senza l’umile lavoro di mio padre oggi non sarei qui a scrivere questi pensieri che rasentano una certa nostalgia.
Detto questo, proviamo a sviluppare il ragionamento da un altro punto di vista. La mia generazione e anche la successiva si sono avvantaggiate di un periodo di crescita economica che si è interrotto intorno al 2000, forse anche un po’ prima. I nostri genitori, almeno la gran parte, non hanno potuto studiare, per cui i mestieri maggiormente diffusi erano ancora legati alla campagna, all’artigianato, all’edilizia, diciamo che il settore primario prevaleva sul terziario. Erano anche gli anni dell’industria, anche se all’inizio per noi sardi si trattava di lavori di bassa manovalanza mentre le figure specializzate arrivavano da fuori. Partiva il turismo, si costruivano i grandi alberghi e, guarda caso, la nostra città di questa nuova intrapresa economica era la porta d’oro in Sardegna. Negli anni ’70 parte la scuola di massa ed è l’occasione per dare ai figli quello che è mancato ai genitori: l’istruzione e l’alta istruzione. Hanno studiato anche le donne, tante donne, e anche per loro si sono aperte le porte del lavoro.
Detto questo, proviamo a sviluppare il ragionamento da un altro punto di vista. La mia generazione e anche la successiva si sono avvantaggiate di un periodo di crescita economica che si è interrotto intorno al 2000, forse anche un po’ prima. I nostri genitori, almeno la gran parte, non hanno potuto studiare, per cui i mestieri maggiormente diffusi erano ancora legati alla campagna, all’artigianato, all’edilizia, diciamo che il settore primario prevaleva sul terziario. Erano anche gli anni dell’industria, anche se all’inizio per noi sardi si trattava di lavori di bassa manovalanza mentre le figure specializzate arrivavano da fuori. Partiva il turismo, si costruivano i grandi alberghi e, guarda caso, la nostra città di questa nuova intrapresa economica era la porta d’oro in Sardegna. Negli anni ’70 parte la scuola di massa ed è l’occasione per dare ai figli quello che è mancato ai genitori: l’istruzione e l’alta istruzione. Hanno studiato anche le donne, tante donne, e anche per loro si sono aperte le porte del lavoro.
Col tempo le famiglie hanno cominciato ad essere a doppia carriera e parte il lungo cammino della emancipazione femminile. Crescono i servizi e cresce il welfare, si comincia a parlare dei diritti che appartengono ai più deboli. Qualcuno potrebbe pensare che stia parlando di un altro paese, e invece no! Quelli erano gli anni del riscatto, un riscatto sudato ma sempre di riscatto sociale si trattava, padri e madri anche di modeste possibilità economiche erano orgogliosi di sapere che il figlio col diploma era entrato in banca, oppure che in cantiere non faceva il manovale ma il geometra, che addirittura si era iscritto in medicina o in giurisprudenza! Che la figlia era maestra alle elementari o infermiera professionale in ospedale, magari insegnante di latino al liceo classico!
Arrivo al punto: in una delle mie ultime lezioni, mentre tentavo di far percepire in che modo anche le nostre aspirazioni personali influiscano sulla crescita sociale e sullo sviluppo, mi è saltata in mente l’immagine plastica di quella parte di soffitto del Liceo Dettori di Cagliari che si staccava. Una parte cadeva rovinosamente sulla testa della professoressa, un’altra parte su due alunni e sugli arredi della scuola! Nel contempo ho realizzato nella mia mente anche un’immagine metaforica, il crollo cioè delle mie convinzioni, non a causa di un mio cambiamento (che potrebbe starci e saprei anche come elogiarlo) ma a causa di una scuola sarda sempre più fatiscente a livello strutturale e sempre meno preparata a raccogliere le aspirazioni dei nostri giovani.
Arrivo al punto: in una delle mie ultime lezioni, mentre tentavo di far percepire in che modo anche le nostre aspirazioni personali influiscano sulla crescita sociale e sullo sviluppo, mi è saltata in mente l’immagine plastica di quella parte di soffitto del Liceo Dettori di Cagliari che si staccava. Una parte cadeva rovinosamente sulla testa della professoressa, un’altra parte su due alunni e sugli arredi della scuola! Nel contempo ho realizzato nella mia mente anche un’immagine metaforica, il crollo cioè delle mie convinzioni, non a causa di un mio cambiamento (che potrebbe starci e saprei anche come elogiarlo) ma a causa di una scuola sarda sempre più fatiscente a livello strutturale e sempre meno preparata a raccogliere le aspirazioni dei nostri giovani.
Da una parte abbiamo le percentuali più alte di abbandoni scolastici, dall’altra il più alto numero di laureati che non trovano lavoro. Sia in un caso che nell’altro si sperimenta la delusione della scuola, il fallimento di un percorso formativo che solo ieri era l’emblema della realizzazione personale, la scala sociale che ci ha permesso di stare meglio dei nostri genitori e di dare più forza al Paese. Cambia quindi la prospettiva, e inevitabilmente anche la domanda: è ancora possibile offrire ai figli qualcosa di meglio rispetto a quello che hanno vissuto i genitori? Già, perché nel mentre l’impiegato, il geometra, l’infermiera, il medico, l’avvocato, la maestra hanno tirato su famiglia!
Io vorrei credere di si, che è ancora possibile affidare ai figli la crescita del Paese, ma la cosa comporta una forte assunzione di responsabilità sul piano educativo, dell’istruzione e della politica. Per noi sardi, e so perfettamente che il mio è un parere di parte, ormai la strada si stringe sempre di più verso l’autodeterminazione, sia attraverso un modello federalista o, addirittura, attraverso la creazione di uno Stato indipendente. Non lo dico perché vedo nello Stato italiano la causa di tutti i nostri mali (anche se di molti lo è), ma semplicemente perché credo che sia la comunità sarda la sola che possa fermare la crisi in atto e costruire nuovi percorsi di crescita sociale ed economica. Siamo poco più di un milione e mezzo di abitanti e le risorse disponibili sul territorio sono certamente più di quanto necessita al nostro fabbisogno (quanto appena scritto può essere ampiamente documentato ma per non dilungarmi oltre il necessario chiedo di essere preso in parola). Per far si che queste risorse creino il nuovo benessere è necessario poter rivedere, innanzitutto e in chiave territoriale, il nostro modello scolastico e universitario.
Io vorrei credere di si, che è ancora possibile affidare ai figli la crescita del Paese, ma la cosa comporta una forte assunzione di responsabilità sul piano educativo, dell’istruzione e della politica. Per noi sardi, e so perfettamente che il mio è un parere di parte, ormai la strada si stringe sempre di più verso l’autodeterminazione, sia attraverso un modello federalista o, addirittura, attraverso la creazione di uno Stato indipendente. Non lo dico perché vedo nello Stato italiano la causa di tutti i nostri mali (anche se di molti lo è), ma semplicemente perché credo che sia la comunità sarda la sola che possa fermare la crisi in atto e costruire nuovi percorsi di crescita sociale ed economica. Siamo poco più di un milione e mezzo di abitanti e le risorse disponibili sul territorio sono certamente più di quanto necessita al nostro fabbisogno (quanto appena scritto può essere ampiamente documentato ma per non dilungarmi oltre il necessario chiedo di essere preso in parola). Per far si che queste risorse creino il nuovo benessere è necessario poter rivedere, innanzitutto e in chiave territoriale, il nostro modello scolastico e universitario.
L’attuale è una scuola che sradica dal territorio, che censura la cultura del posto, che impone la lingua italiana, che non crea identità. E’ un semplice esercizio intellettuale per chi sa resistere, talvolta facendosi del male! Con l’Università le cose non vanno meglio: siamo un’isola ma chiediamoci quanti dipartimenti in Sardegna formano professionisti abili a trarre risorse dal mare che ci circonda? Ci stanno coprendo di pannelli solari (l’ultimo progetto di cui ho sentito parlare e in attesa di autorizzazione parla di una copertura di 200 ettari) e di pale eoliche, manco dovessimo vendere energia per produrre ghiaccio in Africa, ma chiediamoci quanti dipartimenti in tutta l’isola formano professionisti nel campo delle energie alternative, quelle non invasive e di nuova generazione, come accade nei Paesi più attenti alla conservazione del territorio? Quale dipartimento si occupa della risorsa rifiuti o forma professionisti capaci di ripulire l’isola dalle discariche o dalle zone industriali dismesse? Esempi, solo esempi, a cui se ne possono aggiungere tanti altri. Quello che mi preme dire però, in ultima analisi, è che si può ripartire, che una volta toccato il fondo non c’è più niente da perdere. Spetta ai sardi decidere: o si rimane sui bassifondi, a boccheggiare, o si tenta la risalita. Io diffido di chi ci dice che nel 2015 ci sarà la ripresa, semplicemente perché non si sta facendo niente per prepararla!
Ecco perché dico che la comunità sarda deve farsi carico del suo destino, perché la risalita è anche preparazione, allenare il fiato e la mente, ripartire da una scuola di qualità e legata al meglio della produzione culturale isolana, con un occhio sempre attento alle innovazioni tecnologiche, anche quando si tratta di rendere più agevoli i lavori considerati più umili. E durante la risalita ricordiamoci che i giovani hanno più energia, il passo più veloce, la mente più libera, l’entusiasmo di chi percepisce di essere l’artefice di un cambiamento e la forza di chi sente il tifo dei genitori, lì appena più sotto, dietro le loro spalle. Come fu per noi, tanti anni fa!
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