La Caritas in Veritate e il fenomeno migratorio, compreso quello sardo
Pensavamo di essere un’Isola che accoglie.
Tonio Mura |
Sembrano lontane ma stanno lì, appena dietro l’angolo: parlo delle prossime elezioni europee.
Lo dico perché fra poco, di esse, si comincerà a sgranare i temi più caldi e fra questi quello dei migranti, dei tanti migranti extracomunitari che arrivano o vogliono arrivare in Europa, e dei tanti migranti comunitari che dall’Europa dell’Est e con un semplice documento di riconoscimento entrano nei nostri Paesi in cerca di miglior fortuna.
La Sardegna è interessata al fenomeno in minima parte, e l’ultimo rapporto dice che nel 2013 gli immigrati erano 40.000 in tutto (compresi i figli nati nell’Isola), il 2,2 per cento della popolazione, la percentuale più bassa d’Italia.
Gli svizzeri, che non fanno parte della UE ma che viene difficile non definire europei, se non altro perché appartengono all’Efta (Spazio Economico Europeo), hanno già deciso: dopo gli esiti del Referendum del 9 febbraio u.s. le porte della nazione saranno chiuse ai migranti, compresi i frontalieri che siamo noi, e saranno imposte quote di permessi di lavoro che varieranno di anno in anno. Norme simili le ritroviamo negli Usa, in Canada, in Australia, paesi che tuttavia soffrono di una forte emigrazione clandestina. Quella degli svizzeri è sicuramente una scelta che sarà portata da esempio in campagna elettorale dalle diverse parti politiche, anzi già lo è! Che la società del futuro però sia multietnica non sto neppure a discuterlo: è così e basta! Il vero problema è se ci stiamo organizzando per governare una società multietnica, e se sia possibile stabilire delle regole condivise a tutela delle persone che emigrano e di quelle che accolgono, che sono le due facce della stessa medaglia. Tutto questo dovremmo farlo senza ideologismi, senza scadere in forme di tolleranza acritica o in certa xenofobia. Sarà per deformazione professionale, sarà perché non ho trovato spunti nelle proposte politiche dei grandi partiti europei e/o europeisti, certo è che le cose più interessanti che ho letto a questo proposito le ho trovate in una enciclica sociale, l’ultima in ordine di tempo (2009): la Caritas in Veritate di Benedetto XVI, il Papa abdicatario (che adesso si comincia ad apprezzare!).
Il tema è affrontato nel cap. V della lettera, dal titolo significativo: La collaborazione della famiglia umana. Qui si delinea un senso di comunità che va oltre la semplice appartenenza sociale, un aspetto che viene colto come patrimonio comune delle grandi religioni universali ma che ritroviamo anche nel pensiero laico. La parte specifica dedicata al tema delle migrazioni la troviamo al n. 62, dove si offrono interessanti spunti per gestire “le sfide drammatiche che tale fenomeno pone alle comunità nazionali e a quella internazionale”. Possiamo declinare il tutto in quattro suggerimenti rivolti al mondo della politica e ai governanti:
Lo sfondo che fa da cornice alla riflessione è indicato nelle ultime righe del paragrafo: “Ogni migrante è una persona umana che, in quanto tale, possiede diritti fondamentali inalienabili che vanno rispettati da tutti e in ogni situazione”.
Provo a declinare punto per punto e con un occhio alla sintesi, quindi alla necessaria brevità imposta dal taglio giornalistico della riflessione, consapevole del fatto che andrò a coltivare tante lacune o manchevolezze (ma ho deciso di correre questo rischio).
La cooperazione internazionale: Se non si porta lo sviluppo nei paesi più poveri sarà sempre più difficile fermare quello che l’enciclica, riferendosi alla emigrazione, chiama “un fenomeno sociale di natura epocale”. Preciso che l’enciclica quando parla di sviluppo lo definisce “integrale”, cioè la somma di ciò che ci spetta per natura (Il cibo, la terra, la libertà ecc.), per cultura (l’educazione, l’istruzione, le medicine ecc. ), per spiritualità (la libertà di religione, di culto, di associazione e di propaganda religiosa ecc.). L’aiuto in funzione dello sviluppo, tuttavia, deve essere sussidiario, cioè non deve creare forme di dipendenza, deve essere partecipativo e orientato alla assunzione di responsabilità. In questa direzione sono importanti le ONG, le banche etiche, il micro prestito, l’accesso all’istruzione di base e superiore, la rete dei servizi e specialmente di quelli sanitari, il riconoscimento dei diritti dei lavoratori compreso il diritto alla sicurezza, l’innalzamento del tenore di vita attraverso retribuzioni più adeguate.
La stretta collaborazione tra paesi di partenza e paesi di arrivo dei migranti: In assoluto dovrebbe essere garantita a tutti la libertà di movimento. Significa che “chi vuole” deve poter andare “dove vuole”, perché abitante della terra. Significa che uno dovrebbe emigrare per scelta e non per necessità. Il fenomeno migratorio di cui parla l’enciclica però ha poco a che vedere con la libertà di movimento. Esso si riferisce a quella necessità, sentita soprattutto dalla popolazione più giovane che abita i paesi più poveri, di cambiare vita. Talvolta il minimo che un paese ricco può offrire a questi giovani è molto ma molto di più di quello che questi giovani potrebbero avere dal loro paese di origine! Basti questo per spiegare la dimensione planetaria del fenomeno, lo spostamento di milioni di persone verso i paesi del benessere. Un fenomeno che, nel tempo, va a modificare la conformazione stessa delle società metropolitane, tanto che ormai le chiamiamo multietniche.
La Sardegna è interessata al fenomeno in minima parte, e l’ultimo rapporto dice che nel 2013 gli immigrati erano 40.000 in tutto (compresi i figli nati nell’Isola), il 2,2 per cento della popolazione, la percentuale più bassa d’Italia.
Gli svizzeri, che non fanno parte della UE ma che viene difficile non definire europei, se non altro perché appartengono all’Efta (Spazio Economico Europeo), hanno già deciso: dopo gli esiti del Referendum del 9 febbraio u.s. le porte della nazione saranno chiuse ai migranti, compresi i frontalieri che siamo noi, e saranno imposte quote di permessi di lavoro che varieranno di anno in anno. Norme simili le ritroviamo negli Usa, in Canada, in Australia, paesi che tuttavia soffrono di una forte emigrazione clandestina. Quella degli svizzeri è sicuramente una scelta che sarà portata da esempio in campagna elettorale dalle diverse parti politiche, anzi già lo è! Che la società del futuro però sia multietnica non sto neppure a discuterlo: è così e basta! Il vero problema è se ci stiamo organizzando per governare una società multietnica, e se sia possibile stabilire delle regole condivise a tutela delle persone che emigrano e di quelle che accolgono, che sono le due facce della stessa medaglia. Tutto questo dovremmo farlo senza ideologismi, senza scadere in forme di tolleranza acritica o in certa xenofobia. Sarà per deformazione professionale, sarà perché non ho trovato spunti nelle proposte politiche dei grandi partiti europei e/o europeisti, certo è che le cose più interessanti che ho letto a questo proposito le ho trovate in una enciclica sociale, l’ultima in ordine di tempo (2009): la Caritas in Veritate di Benedetto XVI, il Papa abdicatario (che adesso si comincia ad apprezzare!).
Il tema è affrontato nel cap. V della lettera, dal titolo significativo: La collaborazione della famiglia umana. Qui si delinea un senso di comunità che va oltre la semplice appartenenza sociale, un aspetto che viene colto come patrimonio comune delle grandi religioni universali ma che ritroviamo anche nel pensiero laico. La parte specifica dedicata al tema delle migrazioni la troviamo al n. 62, dove si offrono interessanti spunti per gestire “le sfide drammatiche che tale fenomeno pone alle comunità nazionali e a quella internazionale”. Possiamo declinare il tutto in quattro suggerimenti rivolti al mondo della politica e ai governanti:
- È richiesta una forte e lungimirante politica di cooperazione internazionale;
- È richiesta una stretta collaborazione tra i Paesi da cui partono i migranti e i Paesi in cui essi arrivano;
- È richiesto un adeguato accompagnamento legislativo di valore internazionale a salvaguardia dei diritti di chi emigra e di chi accoglie;
Lo sfondo che fa da cornice alla riflessione è indicato nelle ultime righe del paragrafo: “Ogni migrante è una persona umana che, in quanto tale, possiede diritti fondamentali inalienabili che vanno rispettati da tutti e in ogni situazione”.
Provo a declinare punto per punto e con un occhio alla sintesi, quindi alla necessaria brevità imposta dal taglio giornalistico della riflessione, consapevole del fatto che andrò a coltivare tante lacune o manchevolezze (ma ho deciso di correre questo rischio).
La cooperazione internazionale: Se non si porta lo sviluppo nei paesi più poveri sarà sempre più difficile fermare quello che l’enciclica, riferendosi alla emigrazione, chiama “un fenomeno sociale di natura epocale”. Preciso che l’enciclica quando parla di sviluppo lo definisce “integrale”, cioè la somma di ciò che ci spetta per natura (Il cibo, la terra, la libertà ecc.), per cultura (l’educazione, l’istruzione, le medicine ecc. ), per spiritualità (la libertà di religione, di culto, di associazione e di propaganda religiosa ecc.). L’aiuto in funzione dello sviluppo, tuttavia, deve essere sussidiario, cioè non deve creare forme di dipendenza, deve essere partecipativo e orientato alla assunzione di responsabilità. In questa direzione sono importanti le ONG, le banche etiche, il micro prestito, l’accesso all’istruzione di base e superiore, la rete dei servizi e specialmente di quelli sanitari, il riconoscimento dei diritti dei lavoratori compreso il diritto alla sicurezza, l’innalzamento del tenore di vita attraverso retribuzioni più adeguate.
La stretta collaborazione tra paesi di partenza e paesi di arrivo dei migranti: In assoluto dovrebbe essere garantita a tutti la libertà di movimento. Significa che “chi vuole” deve poter andare “dove vuole”, perché abitante della terra. Significa che uno dovrebbe emigrare per scelta e non per necessità. Il fenomeno migratorio di cui parla l’enciclica però ha poco a che vedere con la libertà di movimento. Esso si riferisce a quella necessità, sentita soprattutto dalla popolazione più giovane che abita i paesi più poveri, di cambiare vita. Talvolta il minimo che un paese ricco può offrire a questi giovani è molto ma molto di più di quello che questi giovani potrebbero avere dal loro paese di origine! Basti questo per spiegare la dimensione planetaria del fenomeno, lo spostamento di milioni di persone verso i paesi del benessere. Un fenomeno che, nel tempo, va a modificare la conformazione stessa delle società metropolitane, tanto che ormai le chiamiamo multietniche.
Ma cosa significa stretta collaborazione? Quali contenuti dovrebbe contenere un accordo che ha lo scopo di governare questo movimento di persone? Rispondo con un esempio: Ho avuto l’opportunità di lavorare per un periodo breve in Algeria, e lì leggevo i quotidiani scritti in francese. Mi colpì un articolo dove si parlava dei giovani algerini che, col sostegno del governo, frequentavano le università della Francia. Dall’altra, nonostante l’impegno economico, l’articolo lamentava la mancanza in Algeria di professionalità di alto livello, mancavano giovani intellettuali capaci di trasformare il paese. Perché? Presto detto: quando nelle università francesi si scopriva il talento di un giovane algerino difficilmente lo si faceva rientrare in patria. Ma anche i meno talentuosi, una volta integrati nel nuovo ambiente, avevano ben pochi argomenti per tornare in Algeria. Di conseguenza per questo paese in cerca di sviluppo l’investimento in borse di studio all’estero non produceva gli effetti attesi! Per contro ci guadagnava la Francia, per diversi ordini di motivi che non sto qui ad elencare. Ecco un esempio di non collaborazione tra paesi di partenza e paesi di arrivo dei migranti.
La soluzione? Portare l’alta formazione nei paesi in via di sviluppo, condividere il sapere e le conoscenze, promuovere la cultura locale, costruire scuole e università, formare una classe di insegnanti degni di questo nome là dove sono più utili. L’enciclica lo dice chiaramente:
“Le popolazioni bisognose non hanno solo necessità di mezzi economici o tecnici, ma anche di vie e di mezzi pedagogici che assecondino le persone nella loro piena realizzazione umana” (n. 61).Leggi condivise e di valore internazionale: di tentativi, in questa direzione, ne sono stati fatti e se ne fanno. Il trattato di Schengen, per esempio, regola la circolazione delle persone tra i paesi della Comunità europea e altri che si sono aggiunti. Esclude gli extracomunitari e comunque non è condiviso in altre parti del pianeta e neppure in tutta Europa. Se facciamo un paragone col commercio notiamo subito che esistono delle norme internazionali ben più estese del Trattato di Schengen; così è per il Codice di navigazione, per i porti e gli aeroporti, per le transazioni bancarie ecc. Si potrebbe pensare che ciò sia possibile in quanto non sono coinvolte delle persone, il che è vero ma solo in parte.
Diciamo che c’è un interesse superiore a far si che la cosa sia possibile, cioè quello delle produzioni, dei guadagni e dell’economia. Ma c’è di più: spesso si sottovaluta che ci sono persone che emigrano per motivi politici o a causa delle guerre. Ebbene, anche in questi casi dove il diritto di asilo dovrebbe essere il minimo garantito, non abbiamo una legislazione di valore internazionale.
Così succede che il perseguitato politico, l’esiliato, il profugo si concentrano là dove c’è più tolleranza nei loro riguardi, limitando di fatto i loro spazi di movimento. Ne deriva che alcuni paesi si fanno carico della loro accoglienza e altri no, quasi che i perseguitati o i profughi siano persone che si mettono nei guai da sole o se la vanno a cercare! L’enciclica lo evidenzia in modo forte:
“Nessun paese da solo può ritenersi in grado di far fronte ai problemi migratori del nostro tempo”.Anche i migranti sono portatori di diritti. Intanto perché sono portatori di tutti i diritti inalienabili che appartengono all’uomo. Ma l’enciclica vuole rimarcare anche un altro elemento, e cioè che gli ingressi siano vincolati solo ed esclusivamente alla necessità di manodopera. È il caso di quelle leggi che programmano l’apertura delle frontiere sulla base dei posti di lavoro scoperti o rifiutati dai locali. Per il Papa i migranti non possono essere considerati una mera forza lavoro, come qualsiasi altro fattore della produzione.
La lettera lascia intuire che spesso tali lavoratori sono pagati di meno e non hanno coperture assicurative. Si realizza così una concorrenza disonesta con i lavoratori locali, una disonestà però che non appartiene ai migranti bensì a chi li assume in forme precarie.
L’enciclica a questo proposito dice che bisogna salvaguardare le esigenze e i diritti delle persone e delle famiglie emigrate e, al tempo stesso, quelli delle società di approdo degli stessi migranti. La questione è anche più complicata, nel senso che i diritti di questi lavoratori spesso non sono riconosciuti neppure nei paesi dove gli imprenditori europei, o di altri continenti, delocalizzano le loro produzioni.
È vero che gli stipendi vanno rapportati al costo della vita, ma quando quest’ultimo è troppo basso, e non si fa niente per migliorare quelle esistenze, viene difficile pensare che quei lavoratori siano qualcosa di più di una semplice merce! Va da sé, e lo accenno soltanto, che il discorso sui diritti va ben oltre il riconoscimento dei diritti del lavoratore, coinvolgendo la cittadinanza, la possibilità dei ricongiungimenti familiari, l’accesso alla carriera opportunity.
Ovviamente i punti dell’enciclica non esauriscono il discorso, certamente però lo incanalano in una direzione molto pratica, che deve integrarsi con quanto già c’è, specialmente per quello che riguarda le relazioni internazionali, e cioè il principio di reciprocità.
Detto in breve: ogni collaborazione deve basarsi su accordi che vanno rispettati da tutte le parti in causa. Se si tratta di riconoscere la libertà di religione dei migranti musulmani da parte dei paesi di accoglienza, è inevitabile che tale libertà debba essere riconosciuta anche per i non musulmani che vivono nei paesi di partenza dei migranti.
Così deve essere per i diritti di cittadinanza, per il lavoro minorile, per la condizione della donna ecc. Non si tratta di stravolgere le abitudini e le tradizioni dei luoghi ma di espandere quegli spazi di libertà spesso negati da pregiudizi arcaici e talvolta disumani.
Per chiudere ritorno alla Sardegna: si è detto che siamo il territorio italiano con la più bassa presenza di migranti. Siamo anche il territorio dove è più basso il numero dei migranti che svolgono un lavoro regolare. Mentre nel nord Italia la categoria dei migranti contribuisce a riempire le casse previdenziali, in Sardegna ciò avviene solo in forma marginale.
Per chiudere ritorno alla Sardegna: si è detto che siamo il territorio italiano con la più bassa presenza di migranti. Siamo anche il territorio dove è più basso il numero dei migranti che svolgono un lavoro regolare. Mentre nel nord Italia la categoria dei migranti contribuisce a riempire le casse previdenziali, in Sardegna ciò avviene solo in forma marginale.
Un altro segno della crisi che tocca tutta la società sarda, e che purtroppo sta determinando il nuovo flusso migratorio dei giovani sardi. Pensavamo di essere un’Isola che accoglie; la realtà ci svela che siamo un’Isola da cui soprattutto i giovani emigrano, non solo per scelta ma anche per necessità! Nel mondo, in cerca di migliore fortuna adesso (come nel dopoguerra) ci siamo anche noi.
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