Il Pd di Renzi in guerra contro i lavoratori
Penso che chi fa di questi calcoli sarà spazzato via dalla reazione popolare e dalla storia.
Antonio Budruni |
Nel maggio del 1970, il Parlamento italiano approva la legge 300, universalmente nota come Statuto dei lavoratori. Una legge di civiltà mirata a garantire la libertà e la dignità dei lavoratori, la libertà e l’agibilità dei sindacati nei luoghi di lavoro, regole certe per le assunzioni. La legge, però, aveva valore solo nelle aziende con 15 dipendenti (5, in agricoltura) per non penalizzare, si disse allora, le piccole e piccolissime imprese.
La legge 300 fu la risposta delle istituzioni – e delle forze politiche allora al governo (Dc, Pri, Psi, Psu) – alle grandi mobilitazioni operaie del 1969 che bloccarono per lunghi periodi le grandi fabbriche del nord, rivendicando migliori condizioni di lavoro, libertà e dignità in fabbrica, agibilità politica e sindacale.
La destra, che dovette inghiottire un rospo per lei indigeribile, reagì immediatamente con il terrorismo per bloccare l’azione riformatrice e modernizzatrice del Paese, avviata dalla partecipazione diretta delle grandi masse popolari alla vita politica. Nel 1970, in un Paese profondamente condizionato dall’ideologia cattolica, il Parlamento fu costretto dalla pressione popolare ad approvare la legge sul divorzio. Qualche anno più tardi, quella sull’interruzione volontaria della gravidanza. Le forze politiche più conservatrici e reazionarie chiesero il referendum per cancellare norme considerate contrarie alla morale cristiana e alle tradizioninazionali. Ma la grande maggioranza dei cittadini difese quelle leggi respingendo i fautori di un ritorno all’oscurantismo e alla negazione di diritti, ritenuti dalla gran parte dei cittadini inalienabili.
Le stragi fasciste e, come appare sempre più evidente, ordite in collaborazione con pezzi dello Stato (soprattutto i Servizi Segreti), fiaccarono la spinta riformatrice delle masse popolari, favorendo la comparsa sulla scena politica italiana di formazioni estremiste e paramilitari (Br, Autonomia ecc.) che crearono ulteriore confusione e sconcerto tra i lavoratori e gli studenti e produssero quel ripiegamento culturale e politico che portò poi, agli anni delle grandi ruberie, delle tangenti e dei governi antipopolari e antisindacali che, con poche interruzioni (da Craxi a Berlusconi) si esprimono, oggi, con l’immagine ilare e feroce di Matteo Renzi.
Da sempre la destra italiana ha rivendicato l’abolizione dello Statuto dei Lavoratori e, in particolare, dell’art. 18. Ma mai, come oggi, la destra italiana era riuscita ad arrivare così vicina al traguardo. Oggi, ciò è possibile perché il Pd, erede del PCI, Pds, Ds, è capeggiato da un uomo politico che è profondamente di destra sull’unica cosa che definisce con certezza assoluta l’appartenenza ad uno schieramento politico o ad un altro: il lavoro dipendente. Renzi, ha scelto di schierarsi contro i lavoratori e a favore della parte più retriva e più reazionaria del capitalismo italiano.
Quella che ha portato il Paese sull’orlo del baratro con i governi Craxi e Berlusconi e che adesso, con Renzi, intende farla precipitare definitivamente. E lo fa, e può farlo, perché indossa una maglietta di sinistra, perché ha occupato la dirigenza di un partito che nacque e visse con un obiettivo strategico centrale: la tutela del lavoro e dei lavoratori, ed ora cambia fronte: si schiera contro i lavoratori e con la parte peggiore del padronato.
Si schiera, cioè, con la destra politica nazionale che vede come il fumo negli occhi qualsiasi conquista operaia e popolare, che batte freneticamente le mani a Renzi che, finalmente, può riuscire laddove essi, per decenni, avevano sempre fallito. Per rendersene conto, basta leggere i commenti dell’ex ministro del lavoro di Berlusconi, Sacconi, di Belpietro, su Libero e, più in generale, sulla stampa della destra italiana.
Ciò che più spaventa in questo momento storico è la disinvoltura con la quale il premier Renzi usa la menzogna per convincere gli italiani che abolire – magari per decreto – l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori sia addirittura una cosa di sinistra. Ecco le sue argomentazioni:
1) l’articolo 18 tutela una parte minoritaria dei lavoratori italiani (quelli delle imprese con oltre 15 dipendenti), quindi è discriminante – ha parlato addirittura di “apartheid” – e quindi quell’articolo va abolito.
2) La cancellazione dell’articolo 18 indurrebbe molti imprenditori, soprattutto quelli stranieri, a assumere nuovi lavoratori.
Nessuna di queste motivazioni regge. Si tratta, infatti, di bugie e di distorsioni della realtà utilizzate per gabbare gli ingenui e i disinformati. L’articolo 18 non impedisce ad alcuno di assumere lavoratori e a intraprendere nuove attività economiche. Per il semplice fatto che pone un limite preciso ai licenziamenti senza giusta causa e senza giustificato motivo.
La legislazione italiana – insieme a quelle di tutto il mondo civile – pone vincoli alla libertà di licenziamento: si può legittimamente licenziare un lavoratore per giusta causa e per giustificato motivo. Non lo si può fare per mero capriccio o per rappresaglia, per discriminazione ecc. L’articolo 18 prevede che i lavoratori licenziati senza una giusta causa o un giustificato motivo siano reintegrati dal giudice nel loro posto di lavoro. Ciò non può accadere nelle imprese con meno di 15 dipendenti. Renzi, dunque, per abbattere le discriminazioni ritiene giusto mettere tutti i lavoratori italiani nella stessa situazione: privi di tutela.
Questa sarebbe infatti, la situazione dopo che l’art. 18 fosse abolito. Perché tutte le promesse diffuse a reti unificate, infatti, sono solo promosse e non atti normativi concreti. Renzi è convinto – da poco, a quanto pare, prima aveva un’altra opinione – che abolire l’articolo 18 favorirebbe l’arrivo di grandi quantità di capitali stranieri pronti a investire in Italia.
Illuso. Illuso e sprovveduto.
Gli investimenti, infatti, non dipendono dall’assenza di tutele dei lavoratori – oggi, infatti, la stragrande maggioranza di essi, soprattutto donne e giovani, lavorano con contratti vergognosi e lesivi della loro dignità, senza che neppure un euro di capitale straniero abbia voluto approfittare di questo meraviglioso far west – , ma dalle condizioni economiche e politiche di uno Stato.
Gli imprenditori seri, a qualunque parte del mondo appartengano, se ne guardano bene dall’investire nel Belpaese, perché non vogliono avere nulla a che fare con le mafie che strozzano intere regioni d’Italia, con la corruzione che appare endemica e pervasiva, con la burocrazia che soffoca ogni più rosea aspettativa di fare affari da noi e con l’imposizione fiscale che inibisce qualsiasi ipotesi di investimento.
Tutto ciò, come si vede, non c’entra nulla con l’art. 18. Se in un Paese massacrato dalla disoccupazione, dalla povertà dilagante, dalla corruzione e dalle mafie il governo si impunta su una questione assolutamente marginale, vuol dire che non ha alcuna idea di gestione della cosa pubblica, di come si possa uscire dalla crisi economica, di quali siano le strategie da mettere in campo per salvare il Paese. Quindi, la butta in politica (o in “caciara”, come dicono a Roma) e in ideologia: “spezzare le reni ai lavoratori”.
Penso che chi fa di questi calcoli sarà spazzato via dalla reazione popolare e dalla storia.
Staremo a vedere.
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