Le micro e piccole imprese nella transizione economica
Un sistema che solo marginalmente, soprattutto negli ultimi vent'anni, ha conosciuto l’applicazione delle norme della riforma del lavoro.
Mario Podda |
Prendo spunto dall’articolo di Budruni , Il Pd di Renzi in guerra contro i lavoratori, per chiarire alcuni aspetti che riguardano il sistema imprenditoriale italiano rispetto ad alcuni luoghi comuni che spesso caratterizzano la pubblicistica in tema di lavoro e impresa.
Anche Budruni non viene meno a questo modo superficiale di trattare l’argomento con la presunzione di volere mettere insieme cinquant'anni di storia del nostro Paese partendo dallo statuto dei lavoratori , passando per le stragi fasciste sino ad approdare al governo Renzi, il tutto, rileva l’autore, profondamente condizionato dall'ideologia cattolica.
Anche Budruni non viene meno a questo modo superficiale di trattare l’argomento con la presunzione di volere mettere insieme cinquant'anni di storia del nostro Paese partendo dallo statuto dei lavoratori , passando per le stragi fasciste sino ad approdare al governo Renzi, il tutto, rileva l’autore, profondamente condizionato dall'ideologia cattolica.
Tra i tanti e variegati temi messi insieme nell'articolo, ho deciso di concentrarmi sull'argomento imprese e lavoro prendendo spunto dal recente rapporto OCSE sulle PMI italiane.
E’ da qui che parto leggendo i numeri economici alla luce del loro significato per il cambiamento delle classi sociali e della loro posizione nella divisione sociale del lavoro. All’incrocio tra economia e società: è lì che si è sempre posto e continua a porsi il fenomeno della piccola impresa.
E l’esperienza italiana può essere utile anche per gli altri paesi. In Italia il 95 % delle imprese, non finanziarie, hanno meno di 9 addetti. Valgono l’81 % dell’occupazione, il 71,3 % del valore aggiunto, il 54 % delle esportazioni. E’ il Paese dell’imprenditorialità diffusa: il 44 % degli italiani contro il 37 % della media europea sceglie di fare ricorso all’autoimpiego.
E’ un sistema che solo marginalmente, soprattutto negli ultimi vent’anni, ha conosciuto l’applicazione delle norme della riforma del lavoro .
Quindi, quando parliamo di statuto dei lavoratori, facciamo riferimento ad un ordinamento giuridico fortemente collegato ad un sistema imprenditoriale fordista che tuttavia, negli ultimi trent’anni, ha accelerato la transizione verso la piccola impresa: i piccoli imprenditori tradizionali (commercio, artigianato, trasporto) e il lavoro indipendente nel terziario della conoscenza, delle libere professioni, dei servizi alla persona, ecc..
Una dinamica e un cambiamento della piccola impresa che mantiene una costituzione pre-economica e antropologica: è capitalismo di territorio, espressione di rapporti sociali prima che di dinamiche strettamente di mercato. Non si tratta banalmente di un capitalismo “piccolo” quanto di un sistema diverso che ha almeno tre caratteristiche:
a. è “una società al lavoro” dentro un quadro di rapporti sociali diversi da quelli delle formazioni economico-sociali del fordismo;
b. è una soggettività con norme, visioni, aspirazioni politiche e ideologie diverse dal fordismo: saper fare, auto imprenditoria, individualismo proprietario, localismo, mobilità sociale sono i valori diffusi di un blocco sociale con cui il paese ha tenuto la fine della grande fabbrica;
c. è un modello istituzionale in cui i poteri intermedi hanno un ruolo fondamentale: CCIAA, enti locali, autonomie funzionali, ecc.: è questa infrastruttura societaria, culturale e istituzionale che permette alle piccole imprese di competere anche senza avere dimensione e risorse da investire.
Se questo è il contesto socio -economico, bisogna allora interpretare la transizione ponendosi il problema di individuare una via italiana alle tutele dei lavoratori, che sia coerente con il cambiamento che ha caratterizzato il sistema imprenditoriale italiano negli ultimi trent’anni . Occorre cioè trovare una sintesi “alta” –non una banalizzazione del sistema complesso dello sviluppo economico - tra ciò che non c’è più (la grande impresa fordista) e quello che oggi è il capitalismo di territorio: la piccola impresa dei distretti produttivi con al centro la microimpresa. E’ su questi tratti dell’ambiente economico che l’Italia appare in testa nella classifica OCSE segnando la differenza rispetto agli altri paesi sviluppati.
Infine, sulla difficoltà, rilevate da Budruni, di investire in Italia, curiosamente gli indicatori del rapporto OCSE, sembrano indicare nel solito problema dei tempi burocratici per l’apertura dell’impresa, nella semplificazione normativa un falso problema o comunque qualcosa che non è un differenziale negativo del nostro paese. Mentre su quelli che sono i costi maggiori, il rapporto indica, per chi vuole investire in Italia: il costo dell’energia (+ 20 % rispetto alla media europea), sistema logistico (+11 % di costo), caduta maggiore della domanda interna, tassazione più pesante.
Mario Podda
Componente consiglio di amministrazione
Consorzio Industriale Sassari- Alghero- Porto Torres
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