L'intreccio perverso tra buonismo e devianza
I percorsi dell'esclusione sociale ad Alghero.
Tonio Mura |
Quanto accaduto nel quartiere di S.Agostino merita un momento di riflessione suppletivo, che vada oltre certi luoghi comuni e superi quelle forme di ilarità, di irrisione e di morboso compiacimento che molti provano quando una o più persone sono in evidente difficoltà o nel bel mezzo di una situazione che può renderle ridicole.
Così è per gli ubriachi, per i matti, per i bigotti e le bigotte, per i detenuti, per gli sprovveduti, per gli anziani malati, per i malformati! L’elenco può continuare ma non è questo che m’interessa. Quello dell’irrisione è il tipico atteggiamento di chi, davanti a una persona in difficoltà, non vuole chiedersi cosa si può fare; oppure di chi crede di occupare un gradino più alto della scala sociale rispetto al disgraziato irriso; anche di chi nasconde nell’irrisione la sua paura, quasi come si trattasse di una forma di esorcismo. Così può accadere che uno di questi disgraziati (così vengono definiti), proprio nel giorno in cui si celebra l’ingresso del nuovo parroco, si aggiri dentro la Chiesa con tono minaccioso e non sappia tenere un contegno adeguato alla situazione.
Così è per gli ubriachi, per i matti, per i bigotti e le bigotte, per i detenuti, per gli sprovveduti, per gli anziani malati, per i malformati! L’elenco può continuare ma non è questo che m’interessa. Quello dell’irrisione è il tipico atteggiamento di chi, davanti a una persona in difficoltà, non vuole chiedersi cosa si può fare; oppure di chi crede di occupare un gradino più alto della scala sociale rispetto al disgraziato irriso; anche di chi nasconde nell’irrisione la sua paura, quasi come si trattasse di una forma di esorcismo. Così può accadere che uno di questi disgraziati (così vengono definiti), proprio nel giorno in cui si celebra l’ingresso del nuovo parroco, si aggiri dentro la Chiesa con tono minaccioso e non sappia tenere un contegno adeguato alla situazione.
Però si procede incuranti della difficoltà, esponendo un’indifferenza che sorprende lo stesso disgraziato, o dimenticato. Tanto che il tipo reagisce e prova ad attirare l’attenzione su di sé attraverso un autentico tentativo di aggressione, come altre volte ha fatto nei confronti delle persone da cui crede di aver ricevuto un torto o un’offesa; poco conta se si tratta di un prete, di un impiegato del Comune, di un poliziotto o di un volontario della Caritas.
Succede così che il disagio di uno si replica nei tanti spettatori inermi, incapaci di interpretare la situazione ma soprattutto vittime di un imprevisto, di una situazione inattesa e apparentemente senza vie d’uscita.
Aggiungo, senza entrare nei dettagli, che la scena continua a ripetersi anche se in location diverse. Di conseguenza si diffonde il disagio, generato dall'insicurezza che un esagitato (così viene definita la persona momentaneamente incapace di controllare il proprio comportamento) trasmette agli involontari malcapitati, i quali cominciano a reagire esibendo l’intero repertorio dell’irrisione, quasi a dire che noi non saremo mai come lui, che nulla di quel genere potrà toccarci, che quella situazione limite non è riproducibile nelle nostre vite opulente e tranquille.
In questo modo il disgraziato è messo alla berlina, isolato, reso innocuo, trattato come un dissociato, assecondato quando si allinea, rifiutato quando si ribella!.
Possiamo definire questo il percorso tipico dell’emarginazione, che non ha la sua origine in vite disperate, devianti o impazzite, bensì in quel giudizio collettivo che condanna il disgraziato alla solitudine, alla incomprensione, al continuo fraintendimento.
E una volta incollata l’etichetta sarà molto difficile per chi la porta cambiare il proprio destino! Inizia così un percorso di esclusione totale che obbliga il disgraziato a una vita raminga, a una forma di randagismo umano, dove per sopravvivere bisogna lottare contro se stessi e contro quelli come te, dove conta solo la legge del branco, che non è la legge dei buoni anzi: è proprio la negazione di ogni legge.
Succede che il disgraziato è costretto a vivere nelle periferie della vita, in una zona liminale dove non è facile distinguere il bene dal male, dove bisogna delinquere per essere accettati da quelli che sono più disgraziati di te. Sino all'ultima tappa: la prigione!
Ma quanto è successo nel quartiere di S. Agostino dice anche altro, e cioè il fallimento delle agenzie assistenziali quando si tratta di gestire persone totalmente coinvolte in un’esistenza borderline, specialmente se sono portatori di un vissuto di esclusione che nasce sin dai banchi di scuola, si protrae dentro la parrocchia e continua nel confronto con i pari.
Siamo capaci di produrre l’antidoto che contrasta il veleno del serpente a sonagli ma siamo completamente sprovveduti quando si tratta di contrastare le cause dell’esclusione sociale, anzi riproduciamo quelle tossine e ci avveleniamo sempre di più.
Perché il percorso della devianza, diciamolo, è funzionale alle tante forme del controllo sociale. Se il figlio di papà si fa le canne è ovvio che ci vuole un pusher che gli venda la cannabis!
Se il papà della famiglia perbene vuole trasgredire è ovvio che ha bisogno di una prostituta che gli venda anche la coca!.
Ma né il figlio di papà, né il papà infedele finiranno mai in prigione, perché cogliere l’occasione non è una colpa.
Ecco quindi che anche là dove le distanze si sono annullate, cioè nel campo del proibito, si rinnova lo schema che assolve gli uni in ragione del loro non coinvolgimento nell’atto delinquenziale, e condanna gli altri, i reietti della società.
Il controllo sociale non è una forma di difesa a fronte della pericolosità di alcune persone, bensì il modo per salvare le apparenze, le connivenze, le differenze. Nel contempo si può sempre dire di aver individuato il colpevole, di aver ammanettato la causa del danno, di aver sanato la comunità degli onesti dal suo morbo!. Può essere, e di fatto lo era, che l’esagitato sia evaso dagli arresti domiciliari, e può essere che lo facesse di frequente, che avesse davvero bisogno di soldi, che volesse festeggiare anche lui a suo modo, cioè con una sbronza colossale.
Può essere che dentro di lui covasse la ribellione, che davvero si stesse chiedendo che merda di vita mi tocca vivere, che stesse cercando l’ennesima elemosina del benefattore di turno e che il benefattore non fosse più tale, aspettando quel momento per far espiare al poveraccio una sorta di pena per quanto accaduto un giorno prima, in perfetto stile clericale.
Urla, parole offensive, minacce, insomma il repertorio verbale dell’avanzo di galera (li chiamano anche così) come un vomito colpisce la sensibilità di chi sino a ieri ha giocato a fare il buon samaritano, e non potendone più qualcuno chiama la polizia. Già, la polizia, che già sapeva ma tollerava, che già altre volte si è occupata del deviante, che non ne può più di dover gestire il disagio quando diventa pericoloso, in emergenza.
Ma deve farlo, e lo fa come sempre, dividendo i combattenti e isolando la presunta causa, cioè l’evaso. E’ a questo punto che arriva l’imprevisto, quello che nessuno si aspettava: qualcuno pensa che l’evaso vada difeso, che in lui non c’è una colpa, una disperazione forse si.
Vuole salvarlo dall'ennesima gogna e così affronta il poliziotto, libera il fratello e fuggono a gambe tese nell'unico rifugio che li accoglie senza pregiudizio: la loro casa. Una corsa breve, poi dentro le stanze che sino a ieri ospitavano l’invalido e oggi i malcapitati. Stanze piene di dolore, pareti testimoni di povertà e di abbandono, pavimenti bagnati di lacrime, finestre chiuse alla speranza.
Emarginazione su emarginazione, questo è quella casa!.
Chissà cosa si son detti quando a doppia o tripla mandata hanno chiuso il portone blindato? Magari che domani sarebbero tornati alla mensa Caritas, o che l’avevano fatta davvero grossa. Forse hanno pensato di chiedere aiuto ai servizi sociali del Comune o di bussare alla porta di un’altra parrocchia.
Oppure si son detti che adesso iniziava la lotta vera, tirando fuori l’orgoglio di chi conosce la reclusione e non vuole tornarci, costi quel che costi.
Non si chiedono perché nella loro casa ricevevano solo la visita dei carabinieri per confermare gli arresti domiciliari e non passava nessun altro, per una settimana, poi due, poi un mese e anche di più.
Non si chiedono perché dopo il carcere c’è il vuoto che conduce alla recidiva, o la solita compagnia della mensa dei poveri.
Non si chiedono perché nessuno si occupa della loro vita spericolata, perché per loro non c’è una via d’uscita, non si chiedono perché devono inventarsi il modo di riempire il tempo stando a casa come in una prigione.
Non se lo chiedono perché hanno la mente confusa, perché l’adrenalina è a cento e fra poco inizia la guerra.
Bisogna stanare i fuggiaschi, gli ordini arrivano dall'alto e le forze dell’ordine loro malgrado devono agire, supportate dai Vigili del Fuoco armati di smeriglio e piede di cesoie. La scena è drammatica: due contro dieci, venti, trenta agenti. La partita è già persa in partenza ma i due non si arrendono!.
Nel mentre arriva l’ambulanza e la folla dei curiosi, che stazionano ai bordi del nastro che separa il campo di battaglia dal palcoscenico.
Inizia il reality e tutti si divertono, tranne gli agenti e i vigili del fuoco, men che meno i due di dentro. Si va avanti così sino alla cattura, dopo aver smantellato la porta che separava i già condannati dagli ignavi spettatori. Come ai tempi della Rivoluzione Francese, quando lo spettacolo era vedere la testa che si staccava dal collo!.
Mi dispiace dirlo, ma non è stato un esempio di civiltà. E ancora una volta tutto questo succede nella nostra cittadina, euforica per l’estate che continua, abbastanza spensierata e magari col personale dei servizi sociali o del Centro di igiene mentale ancora in ferie o intenti a raccontarsi dell’ultimo viaggio. Però non sono qui a distribuire colpe a nessuno, voglio solo evidenziare quanto siamo impreparati ad affrontare certe emergenze e con quanta facilità si delega alle forze dell’ordine la soluzione di ogni problema, senza che si applichi alcuna forma di prevenzione.
Dico solo che si poteva non arrivare a quel punto e che se in tutto questo c’è una lezione spero la capisca chi di dovere. Per il resto mi piacerebbe vivere in una città più educata e civile, dove non si ride delle disgrazie altrui ma soprattutto dove il buonismo di alcuni sprovveduti non sia a copertura delle professionalità che forse mancano.
Aggiungo, senza entrare nei dettagli, che la scena continua a ripetersi anche se in location diverse. Di conseguenza si diffonde il disagio, generato dall'insicurezza che un esagitato (così viene definita la persona momentaneamente incapace di controllare il proprio comportamento) trasmette agli involontari malcapitati, i quali cominciano a reagire esibendo l’intero repertorio dell’irrisione, quasi a dire che noi non saremo mai come lui, che nulla di quel genere potrà toccarci, che quella situazione limite non è riproducibile nelle nostre vite opulente e tranquille.
In questo modo il disgraziato è messo alla berlina, isolato, reso innocuo, trattato come un dissociato, assecondato quando si allinea, rifiutato quando si ribella!.
Possiamo definire questo il percorso tipico dell’emarginazione, che non ha la sua origine in vite disperate, devianti o impazzite, bensì in quel giudizio collettivo che condanna il disgraziato alla solitudine, alla incomprensione, al continuo fraintendimento.
E una volta incollata l’etichetta sarà molto difficile per chi la porta cambiare il proprio destino! Inizia così un percorso di esclusione totale che obbliga il disgraziato a una vita raminga, a una forma di randagismo umano, dove per sopravvivere bisogna lottare contro se stessi e contro quelli come te, dove conta solo la legge del branco, che non è la legge dei buoni anzi: è proprio la negazione di ogni legge.
Succede che il disgraziato è costretto a vivere nelle periferie della vita, in una zona liminale dove non è facile distinguere il bene dal male, dove bisogna delinquere per essere accettati da quelli che sono più disgraziati di te. Sino all'ultima tappa: la prigione!
Ma quanto è successo nel quartiere di S. Agostino dice anche altro, e cioè il fallimento delle agenzie assistenziali quando si tratta di gestire persone totalmente coinvolte in un’esistenza borderline, specialmente se sono portatori di un vissuto di esclusione che nasce sin dai banchi di scuola, si protrae dentro la parrocchia e continua nel confronto con i pari.
Siamo capaci di produrre l’antidoto che contrasta il veleno del serpente a sonagli ma siamo completamente sprovveduti quando si tratta di contrastare le cause dell’esclusione sociale, anzi riproduciamo quelle tossine e ci avveleniamo sempre di più.
Perché il percorso della devianza, diciamolo, è funzionale alle tante forme del controllo sociale. Se il figlio di papà si fa le canne è ovvio che ci vuole un pusher che gli venda la cannabis!
Se il papà della famiglia perbene vuole trasgredire è ovvio che ha bisogno di una prostituta che gli venda anche la coca!.
Ma né il figlio di papà, né il papà infedele finiranno mai in prigione, perché cogliere l’occasione non è una colpa.
Ecco quindi che anche là dove le distanze si sono annullate, cioè nel campo del proibito, si rinnova lo schema che assolve gli uni in ragione del loro non coinvolgimento nell’atto delinquenziale, e condanna gli altri, i reietti della società.
Il controllo sociale non è una forma di difesa a fronte della pericolosità di alcune persone, bensì il modo per salvare le apparenze, le connivenze, le differenze. Nel contempo si può sempre dire di aver individuato il colpevole, di aver ammanettato la causa del danno, di aver sanato la comunità degli onesti dal suo morbo!. Può essere, e di fatto lo era, che l’esagitato sia evaso dagli arresti domiciliari, e può essere che lo facesse di frequente, che avesse davvero bisogno di soldi, che volesse festeggiare anche lui a suo modo, cioè con una sbronza colossale.
Può essere che dentro di lui covasse la ribellione, che davvero si stesse chiedendo che merda di vita mi tocca vivere, che stesse cercando l’ennesima elemosina del benefattore di turno e che il benefattore non fosse più tale, aspettando quel momento per far espiare al poveraccio una sorta di pena per quanto accaduto un giorno prima, in perfetto stile clericale.
Urla, parole offensive, minacce, insomma il repertorio verbale dell’avanzo di galera (li chiamano anche così) come un vomito colpisce la sensibilità di chi sino a ieri ha giocato a fare il buon samaritano, e non potendone più qualcuno chiama la polizia. Già, la polizia, che già sapeva ma tollerava, che già altre volte si è occupata del deviante, che non ne può più di dover gestire il disagio quando diventa pericoloso, in emergenza.
Ma deve farlo, e lo fa come sempre, dividendo i combattenti e isolando la presunta causa, cioè l’evaso. E’ a questo punto che arriva l’imprevisto, quello che nessuno si aspettava: qualcuno pensa che l’evaso vada difeso, che in lui non c’è una colpa, una disperazione forse si.
Vuole salvarlo dall'ennesima gogna e così affronta il poliziotto, libera il fratello e fuggono a gambe tese nell'unico rifugio che li accoglie senza pregiudizio: la loro casa. Una corsa breve, poi dentro le stanze che sino a ieri ospitavano l’invalido e oggi i malcapitati. Stanze piene di dolore, pareti testimoni di povertà e di abbandono, pavimenti bagnati di lacrime, finestre chiuse alla speranza.
Emarginazione su emarginazione, questo è quella casa!.
Chissà cosa si son detti quando a doppia o tripla mandata hanno chiuso il portone blindato? Magari che domani sarebbero tornati alla mensa Caritas, o che l’avevano fatta davvero grossa. Forse hanno pensato di chiedere aiuto ai servizi sociali del Comune o di bussare alla porta di un’altra parrocchia.
Oppure si son detti che adesso iniziava la lotta vera, tirando fuori l’orgoglio di chi conosce la reclusione e non vuole tornarci, costi quel che costi.
Non si chiedono perché nella loro casa ricevevano solo la visita dei carabinieri per confermare gli arresti domiciliari e non passava nessun altro, per una settimana, poi due, poi un mese e anche di più.
Non si chiedono perché dopo il carcere c’è il vuoto che conduce alla recidiva, o la solita compagnia della mensa dei poveri.
Non si chiedono perché nessuno si occupa della loro vita spericolata, perché per loro non c’è una via d’uscita, non si chiedono perché devono inventarsi il modo di riempire il tempo stando a casa come in una prigione.
Non se lo chiedono perché hanno la mente confusa, perché l’adrenalina è a cento e fra poco inizia la guerra.
Bisogna stanare i fuggiaschi, gli ordini arrivano dall'alto e le forze dell’ordine loro malgrado devono agire, supportate dai Vigili del Fuoco armati di smeriglio e piede di cesoie. La scena è drammatica: due contro dieci, venti, trenta agenti. La partita è già persa in partenza ma i due non si arrendono!.
Nel mentre arriva l’ambulanza e la folla dei curiosi, che stazionano ai bordi del nastro che separa il campo di battaglia dal palcoscenico.
Inizia il reality e tutti si divertono, tranne gli agenti e i vigili del fuoco, men che meno i due di dentro. Si va avanti così sino alla cattura, dopo aver smantellato la porta che separava i già condannati dagli ignavi spettatori. Come ai tempi della Rivoluzione Francese, quando lo spettacolo era vedere la testa che si staccava dal collo!.
Mi dispiace dirlo, ma non è stato un esempio di civiltà. E ancora una volta tutto questo succede nella nostra cittadina, euforica per l’estate che continua, abbastanza spensierata e magari col personale dei servizi sociali o del Centro di igiene mentale ancora in ferie o intenti a raccontarsi dell’ultimo viaggio. Però non sono qui a distribuire colpe a nessuno, voglio solo evidenziare quanto siamo impreparati ad affrontare certe emergenze e con quanta facilità si delega alle forze dell’ordine la soluzione di ogni problema, senza che si applichi alcuna forma di prevenzione.
Dico solo che si poteva non arrivare a quel punto e che se in tutto questo c’è una lezione spero la capisca chi di dovere. Per il resto mi piacerebbe vivere in una città più educata e civile, dove non si ride delle disgrazie altrui ma soprattutto dove il buonismo di alcuni sprovveduti non sia a copertura delle professionalità che forse mancano.
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