Uscire dal tunnel dell’odio e della violenza
Riscoprire la solidarietà, la compassione il perdono non è un auspicio o un invito al “volemose bene”, ma l’unica strada percorribile per la convivenza civile tra esseri umani.
Antonio Budruni |
La mattina esci di casa infreddolito e tossicchiante per iniziare la tua giornata di lavoro con, in testa, i problemi e le questioni da affrontare in ciascuna classe: prima C, terza enogastronomia A, seconda C.
Devi ricordarti di illustrare ai ragazzi della seconda C il tema del concorso sulla prima guerra mondiale vista da Alghero e, nelle altre classi, devi completare le verifiche di recupero di coloro che hanno avuto l’insufficienza nel primo quadrimestre.
Lavori intensamente, come ogni giorno, come tutti i giorni di tutti i mesi e di tutti gli anni della tua ormai lunga carriera di professore di diritto ed economica nelle scuole superiori.
Quella mattina di giovedì 5 febbraio, però, non potrai più dimenticarla. Sì, era iniziata come una mattina qualunque, normalissima. Fino alla ricreazione, quando un tuo collega ti si avvicina e bisbiglia:
“Ciao, ma questo Salvatore Budruni, ristoratore, è per caso tuo parente?”
Tu, meccanicamente e un po’ seccato, rispondi che sì, che è tuo fratello, sorpreso che lui ancora non lo sappia.
“Beh!” – dice – ho appena letto che è stato accoltellato e…”
Il cuore prende a battere come impazzito, gli occhi sbarrati osservano il vuoto e senti in diverse parti del corpo lancinanti fitte come di coltello che penetra nelle carni.
Ritorni in te giusto in tempo per sentire la voce del tuo collega che dice:
“Comunque non è in pericolo di vita”.
Il tuo respiro ed il suo sono sintonizzati in un sospiro: di sollievo.
Esci dalla sala professori e capisci qual è l’espressione del tuo volto leggendola nello stupore di quello degli altri che ti osservano. Ti attacchi al cellulare, chiami i nipoti. Nessuno risponde. L’ansia ti impedisce i movimenti, la fame di notizie – anzi, di certezze e di rassicurazioni – ti divora. Una vibrazione. “Pronto, chi sei?”
“Ciao zi’, sono io. Scusa, non ti ho potuto rispondere, ero impegnato nel lavoro. Tranquillo, papà sta bene. È ricoverato in chirurgia, ma non è in pericolo di vita. Non telefonargli, adesso. Puoi andare a trovarlo quando vuoi: ultima stanza. Ci sentiamo dopo, ciao”.
Altro sospiro, ancora più liberatorio di quello precedente. Poi senti una rabbia sorda montare, mille domande che affiorano. Rientri in sala professori e ti avvicini al collega che ti ha dato la prima informazione. Chiedi dettagli, spiegazioni. Lui può riferirti solo ciò che ha letto in un giornale on-line. Aggiunge che l’aggressore sarebbe stato un ragazzo di poco più di vent’anni, forse è stato addirittura un nostro ex alunno.
Prendi il registro dal tuo armadietto, il codice civile, la cartella, e ti avvii in classe, con la morte nel cuore. Non hai potuto parlare con tuo fratello, non hai potuto capire dalla sua voce come stia, come soffra, come si senta dentro.
Sei allenato da decenni a lasciare fuori dalla porta dell’aula tutto ciò che può interferire con il tuo lavoro. Saluti, sorridi, mentre dentro avverti fitte dolorose, miste a rabbia sorda a voglia di urlare e al bisogno di scappare per andare a trovare tuo fratello trafitto, martirizzato.
Compili il registro di classe e quello tuo personale. Ti alzi ed il sorriso ti si stampa sul volto in automatico:
“Bene ragazzi, come d’accordo, cominciamo la verifica di recupero del primo quadrimestre. Volontari?”
Loro non sanno, neppure sospettano che dentro di te è in corso una lotta violentissima tra la paura per tuo fratello e il dovere di continuare a svolgere il tuo lavoro come se niente potesse interferire.
Ancora non sai che, quello stesso giorno, la cosiddetta “informazione democratica” avrebbe cominciato a gettare fango su tuo fratello, a buttarla in caciara pur di vendere qualche copia in più o per superare di un gradino l’indice di ascolto. Ancora non sai che una buona parte degli essere umani è venduta da sempre o si vende a rate per un tozzo di pane. Ancora non sai che la “pietas”, la compassione, il rispetto sono ormai merce sempre più rara in una società che perde progressivamente tutti i valori su cui è stata fondata.
Invece sai che la paura sta diventando la cifra di questi anni, anche in una città tradizionalmente tranquilla com’è (com’era?) Alghero. La gente ha paura ad uscire di casa, l’informazione, sempre più ancella del “gossip” [leggi: pettegolezzo] sembra sguazzare a meraviglia in questo nuovo scenario che, comunque, fa vendere. Salvo poi lamentarsi che la città è diventata invivibile.
E sai che si scatenerà la caccia al colpevole, perché c’è sete di vendetta più che di giustizia. Perché l’odio circola e pulsa più forte del sangue che scorre nelle vene dei vivi.
Sai che se non si porrà un freno a questo delirio di odio e disprezzo per gli altri, per tutti gli altri, il futuro di ciascuno e di tutti sarà sempre peggiore, sempre più odioso e inumano.
Da insegnante, da studioso di diritto, da uomo di cultura, da fratello di un aggredito vigliaccamente e selvaggiamente, invito tutti a fermarsi, a fermarci. Basta con l’odio, con la sete di vendetta, con la violenza intesa come soluzione dei problemi. Basta!
Abbiamo il diritto di vivere da esseri umani, di riscoprire negli altri la loro essenza di esseri umani, di persone alle quali la Costituzione riconosce diritti inalienabili, primo fra tutti quello alla vita e all’integrità fisica. E dobbiamo pretendere che gli altri riscoprano in noi, in ciascuno di noi, la nostra umanità e i diritti di cui tutti siamo titolari.
E dobbiamo farlo subito, prima che sia troppo tardi, prima che questa nostra società diventi un incubo, diventi un inferno invivibile perché ciascuno ritiene che l’unico modo per vivere bene sia quello che prevede l’annientamento degli spazi di vita degli altri, di tutti gli altri.
Riscoprire la solidarietà, la compassione il perdono non è un auspicio o un invito al “volemose bene”, ma l’unica strada percorribile per la convivenza civile tra esseri umani.
Auguri, Tore!
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