EMILY DICKINSON (1830-1886)
Emily Dickinson (1830-1886) nacque a Amherst, la cittadina del Massachusetts dove condusse tutta la sua esistenza tra le mura e il giardino della casa paterna. Riconosceva in sé la stessa forza indomita e visionaria dei suoi grandi contemporanei e conterranei, i maestri del “Rinascimento americano”. Pubblicare era però estraneo al suo pensiero. Ma, subito dopo la sua morte, edizioni delle sue poesie si succedettero con grande successo, contese tra gli eredi. Ordinate in fascicoli legati a mano, o annotate su semplici fogli manoscritti, le 1775 poesie della Dickinson costituiscono uno straordinario canzoniere, un labirinto di emozioni e stati d’animo, interrogativi metafisici ed esatte descrizioni naturali, paesaggi attoniti, fiabe sorprendenti, parabole eterodosse, meditazioni vertiginose sulla morte e l’immortalità, canti d’amore, verità semplicissime o indecifrabili. Forse nessun classico conserva ancora, a distanza di oltre un secolo, una voce così particolare e insieme universale, tanto domestica e insieme selvatica.
FERNANDO PESSOA (1888-1935)
La sua vita scorre per meno di cinquant’anni in un apparente grigiore. Scapolo, piccolo borghese piuttosto trascurato nel vivere e nel vestire, vincolato per lunghi periodi al gineceo familiare, cultore di studi esoterici, Pessoa si mantiene traducendo lettere commerciali per diverse ditte di Lisbona. Il contributo che riesce a dare allo sviluppo della poesia portoghese del Novecento è però determinante, nonostante le poche pubblicazioni in vita, che oltre a significare comparse sulle riviste dell’avanguardia portoghese includono solo il poemetto Mensagem (1934) e alcune plaquettes di versi inglesi. Tutto si celava man mano in un “baule pieno di gente”, dove per anni si accumularono i testi e si moltiplicarono le figure poetiche immaginate dal poeta.
“Da quando ho coscienza di me stesso, mi sono accorto di un’innata tendenza in me per la mistificazione, per la menzogna artistica”: così Fernando Pessoa indicava le vene della sua esperienza letteraria, per noi oggi una delle più rappresentative dell’ambiguità complessa del Novecento.
DINO CAMPANA (1885-1932)
La leggenda del “poeta pazzo” ha troppo spesso favorito una lettura riduttiva dei Canti Orfici, e troppo spesso si è cercato di scovare il segno della follia nelle immagini e nelle ripetizioni ossessive dei suoi versi, nella potente trasfigurazione della realtà concreta in simbolo sublime ed enigmatico di un’altra realtà. Certo, la vita di DINO CAMPANA pone interrogativi essenziali che riguardano l’arte nei suoi rapporti con la psiche, con le convenzioni sociali, con la dimensione “autre” dell’esistenza, ma i Canti Orfici non sono espressione del “maledettismo” o della follia. Sono piuttosto una ricerca consapevole e ostinata della pienezza, del riscatto della vita attraverso un’idea alta di Poesia, che si nutre nella tradizione tardottocentesca e dell’arte dei grandi maestri del colore (Leonardo, Michelangelo, ma anche Cézanne, i cubisti, i futuristi), e che avvia, con timbro inconfondibile, la moderna poesia italiana. Viaggio reale attraverso città antiche d’Italia, montagne luminose, famose città del Nord, praterie sconfinate dell’Argentina, i Canti Orfici sono anche un viaggio notturno e inquietante dietro l’immagine intravista di lei, simbolo della poesia, volto sfuggente di donna.
In una fredda giornata di dicembre del 1913 Giovanni Papini e Ardegno Soffici, i celebri direttori della rivista fiorentina “Lacerba”, trovarono sulla porta della redazione un uomo giovane, dall’aspetto tedesco, infreddolito nell’abito logoro e troppo leggero. DINO CAMPANA consegnò loro il manoscritto del libro che doveva essere la “sola difesa e giustificazione” della sua vita. Nato a Marrani, sull’Appennino tosco-romagnolo, nel 1913 Campana aveva già conosciuto il manicomio ed il carcere, gli insuccessi e le incomprensioni, la vita errabonda e infiniti mestieri in Italia, in Europa e in Sudamerica. Nel libro della sua vita, intitolato Il più lungo giorno, aveva raccontato le sue notti e le sue albe, i viaggi e i ritorni, le città e le montagne. Ma, tra le mille occupazioni dei due letterati fiorentini, la raccolta andò perduta (riemergerà nel 1971), e il poeta sarà costretto a riscriverla. Mutato e accresciuto rispetto alla prima redazione, il libro, col nuovo titolo Canti Orfici, esce a Marrani nel 1914, richiamando l’attenzione dei lettori più avvertiti; poi, complice la guerra, complice forse la breve ma passionale storia d’amore con la scrittrice Sibilla Aleramo, Campana precipita nella notte che da tempo lo insidia. Nel gennaio 1918 viene ricoverato in manicomio, e nel cronicario di Castel Pulci, vicino a Firenze, concluderà la sua esistenza.
JACQUES PRÉVERT (1900-1977)
Nasce a Neuilly-sur-Seine nel 1900 ed in Bretagna trascorre diversi anni della sua infanzia. Giovanissimo conosce André Breton, Raymond Queneau e i surrealisti ed entra a far parte di questo gruppo, interessato all’arte populista.
Negli anni tra il 1932 ed il 1937 si dedica attivamente al teatro, e scrive testi messi in scena dal "Groupe Octobre", una compagnia teatrale di sinistra. Lavora anche nel cinema e nel mondo della musica; i testi delle sue prime canzoni, musicate da Joseph Kosma, verranno interpretate da cantanti famosi come Juliette Grèco e Yves Montand. Nel 1938 si trova ad Hollywood per continuare la sua attività nel campo cinematografico. Scrive il soggetto per un film di M. Carnè, il celebre “Porto delle nebbie”, interpretato da Jean Gabin. Gli anni dal 1939 al '44 sono caratterizzati da una discreta attività cinematografica, ma nel 1945 riprende l'attività teatrale con la rappresentazione di un balletto cui collabora anche Pablo Picasso. E' del 1945 la celebre raccolta di poesia 'Parole'. Nel 1947 sposa Janine Tricotet, da cui aveva avuto una figlia, Michèle. Tra il 1951 ed il 1955 escono altre sue raccolte e nel 1955 è pubblicata 'La pioggia e il bel tempo'. In quegli anni comincia a dedicarsi ad un'altra attività artistica, quella dei collages, che due anni dopo esporrà alla galleria Maeght e scrive due saggi: 'L'univers de Klee' e 'Joan Mirò'. Nel 1963 pubblica 'Histories et d'autres histories' e nel 1972 esce la raccolta 'Choses et autres' seguita, nel 1976, da 'Arbres'.
Morirà a Parigi l'11 aprile 1977, stroncato da un cancro al polmone.
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